The Beach Boys
Rock In Roma - Ippodromo delle Capannelle
Roma
26 luglio 2012
Ci sono tre cinquantenari da celebrare quest'anno. Sono i tre gruppi più longevi della storia del rock. Anzi, sono la storia del rock: i Beatles e gli Stones, che hanno iniziato entrambi guardando al rock'n'roll americano per trovare una formula che fondesse negritudine, canzone d'autore e inni generazionali di ribellione. E poi un gruppo californiano che a quelle radici, in realtà, non ha mai guardato, assorto nella sua ricerca della pop song perfetta, che non emanasse ribellione ma beatitudine, divertimento, sole mare e buone vibrazioni.
I Beach Boys, in quei primi anni 60 in cui ogni surf song prima, ogni delicata sinfonia pop dopo era un'hit, furono gli unici americani a tener testa all'invasione britannica. La lotta per la top of the charts era serrata, 45 contro 45, gioielli di due minuti e mezzo (tre al massimo) sparati nell'aria da radio e juke box, ballati nelle feste e sulla spiaggia, sui quali innamorarsi e sognare, che lentamente, senza che ce ne accorgessimo, entravano dentro per non lasciarci più. Canzoni nate a volte per gioco, a volte per vendere, sempre per divertire, stavano diventando la colonna sonora di 'teenager di tutto il mondo unitevi'.
C'è un motivo per cui Dio ha fatto i Beach Boys, e sul prato delle Capannelle era evidente: dovunque ti girassi erano sorrisi, occhi ridenti, gente che ballava, saltava, cantava, ondeggiava, totalmente immersa in quell'innocenza che nel rock non esiste più, ma che un arzillo gruppo di settantenni rimessi insieme dopo mille faide e tragedie personali sanno ancora evocare.
Non avevo mai visto i ragazzi da spiaggia dal vivo. Troppo giovane nei primi anni 60, troppo preso da altre musiche nei 70, troppo alla deriva loro negli anni successivi, e troppo restio io a gettarmi nel flusso della nostalgia e pensare a come eravamo, e come si stava 'allora'. È arrivato il momento nell'anno del cinquantenario, però, perché nella vita fare i bilanci serve, eccome se serve. Sarà triste? Sarà solo show-biz? Che BB saranno, col fragile Brian senza più i due fratelli scomparsi Dennis e Carl? Quelle canzoni hanno ancora un senso?
Non ci vorranno due ore e quarantacinque immortali canzoni per capirlo. Sale la band, e un chitarrista chiama gli 'originals', i quattro 'che c'erano' quando tutto ebbe inizio: Brian Wilson è alto, massiccio, arriva camminando lento, a fatica, e si siede al mezzacoda bianco che splende già di suo. Bruce Johnston arriva di corsa, a due dita da terra, e prende posto venti metri più in là, dalla parte opposta, dietro la sua tastierina. ll frontman Mike Love e Al Jardine, il micro-chitarrista dal volto come Zio Tibia, vanno invece al centro. C'è anche un altro original, sparito e ricomparso più volte negli anni, David Marks, chitarrista sopraffino. Et voilà, il mito si manifesta, e c'è fun fun fun per tutti, italiani e turisti, grandi e piccini, papà e mamme e figli a cui tramandare. Tutte facce tranquille, per bene si diceva una volta, altro che Deadmau5, Snoop Dogg e Incubus. "I Beach Boys hanno disinfettato il palco di Capannelle", twitta Claudio Gregori (Greg sin Lillo), fan n. 1 in prima fila, occhiali e ciuffo e camicia a righe bianca e rossa.
La sequenza è impressionante, leggetela, non c'è niente che non abbia venduto qualche milione di copie. Se chiudi gli occhi è un tuffo nella memoria, se li apri ti vien da ridere: Mike, una volta magro anoressico, berretto da capitano del veliero, barba e pantaloni scampanati bianchi, sembra un pensionato all'americana, quelli che incontri a Fort Lauderdale o Palm Springs, camicia fantasia, un po' di pancia e anelloni e smalto sulle unghie e cappellino sugli occhi. E non è l'unico, tutta la prima fila è in tono. Dietro, signor musicisti più giovani, ognuno-dicasi-ognuno dei quali contribuisce a cori e parti soliste, creano un muro di suono dall'acustica perfetta. È veramente musica, come la chiamavano allora, direttamente dal 'Paradiso per teenager'.
Verso la fine arriva una sequenza da brividi: il lento incedere corale di "Sail On Sailor", il nuovo-che-sembra-vecchio "That's Why God Made The Radio", la complessità di scrittura micro-sinfonica di "Heroes And Villains", l'emozione malinconica di "California Dreamin'" (un saluto anche a te, nell'alto dei cieli, Papa John), la dolcezza romantica di "God Only Knows", la folk song degli immigrati della prim'ora, il vascello "Sloop John B", forse e chissà perché la mia preferita da sempre, con quello struggente 'I wanna go home, oh yeah' (perfetto esempio di come a un concerto si può piangere e sorridere insieme), gli intrecci di voci spericolati di "Wouldn't It Be Nice", e infine il masterpiece definitivo, "Good Vibrations". Una quasi mezz'ora che vale un'eternità, in termini di Pantheon del pop. Da lasciare storditi.
Il momento più toccante per me, però, è stato un altro, ed è durato appena un secondo. Il tempo di uno sguardo di Brian. Tenero, immenso Brian. Un genio che, unico al mondo, in quegli anni pre-tutto aveva rivaleggiato con Macca e John (che erano comunque in due), e non solo: in quei due anni, '66 e '67, in cui il rock era esploso di creatività, aveva lui mostrato la strada ai Beatles pre-Peppers, con i suoni trascendenti e sofisticati di "Pet Sounds" (il disco preferito di tutti i tempi di McCartney), e si era poi inchiodato sul seguito, quello "Smile" che non sarebbe mai uscito nella sua integrità. Il capolavoro assoluto, troppo alto anche per l'Icaro del pop californiano, stoppato da Love che non ne capiva tutte le complessità e subito dopo frastornato e schiacciato dalla perfezione di "Sgt. Pepper's". Genio assoluto, ragazzo fragilissimo, che più volte negli ultimi quarant'anni è entrato e uscito da cliniche e periodi nerissimi di dipendenza da droghe, cibo, farmaci e malattie mentali che solo recentemente gli hanno concesso di tornare sul palco. Un genio solitario e disequilibrato, così ben dipinto da quel gioiellino delicato e intimista di "In My Room", la cameretta in cui "c'è un mondo dove posso andare, e raccontare i miei segreti, e chiudere fuori tutte le mie preoccupazioni e paure".
È un finale meraviglioso che Brian sia ancora lì, se non fosse stato un musicista probabilmente sarebbe finito in qualche casa di riposo per malati mentali e non si sarebbe saputo più nulla di lui. Invece c'è, e suona, e canta, e a volte accompagna le sue meravigliose partiture vocali, sinfonie di voci per archi immaginari, con gesti parsimoniosi e un po' goffi. Quasi immobile dietro il piano, i capelli bianchi ora pettinati all'indietro, perfetti, non una ciocca fuori posto. Il suo sguardo è fisso, bocca a momenti piegata, i suoi occhi grigio-azzurri guardano alternativamente gli spartiti e la sua band di sopravvissuti e giovani apprendisti stregoni che portano in scena ancora una volta quei suoni che uscirono come per magia dalla sua fantasia. Lo guardi, ogni tanto tutto il resto ti distrae, ma l'attenzione torna sempre su di lui. Ti chiedi cosa stia provando, cosa stia condividendo di tutto ciò. Se dentro le emozioni si accavallino, o se tutto sia lontano, ovattato. Jardine a un certo punto gli gira intorno, l'affetto è evidente, lo sfiora, canta una free football predictions strofa con lui, lo guarda, è chiaro che tutti sanno che è lui il centro. Due ore dietro quel piano bianco, sguardo sempre in avanti, espressioni minime che cerchi comunque di cogliere, perché per Brian valgono quanto le piroette del consumato showman Love, o il pestare sulle pelli del batterista, o Johnston che ogni tanto esce da dietro la tastiera e orchestra i cori di un pubblico felice di essere venuti alla festa. Poi, all'inizio di "Good Vibrations", si gira verso il pubblico. È un attimo, riesci a vederlo appena. È un sorriso, timido, uscito dal niente. Un attimo, e la testa ritorna nella sua posizione, e lo sguardo punta di nuovo altrove, chissà dove, e tu ti chiedi se sia mai successo. Grazie, Brian, di quell'attimo indimenticabile. Sono i dettagli che contano, e tu lo sai bene, ne eri il re.
Il finale è partytime senza freni, mancano solo tavole da surf e camicie hawaiiane: le Ragazze Californiane (con gentile omaggio alle 'ragazze italiane'), la "Rock'n'Roll Music" di Chuck Berry, lo chansonnier dei primordi del r'n'r, e "Babbabba-babba-B'rAnn" che risuona nel cielo di Roma. C'è ancora "Surfin' USA", e la tripla "Dance", e sorrisi infiniti, e la sensazione di aver vissuto un'esperienza unica e forse irripetibile: trovarsi di fronte a un juke-box umano, 7+7 persone capaci di perfezione vocale e strumentale che sparano fuori un'hit dietro l'altra, quarantacinque volte 45 giri! E dopo aver riso e pianto, e ballato e cantato, la risposta alla domanda iniziale è: sì, certamente. Quelle canzoni hanno ancora, e avranno per sempre, un senso. Quello di un'Endless Summer, un'estate infinita.
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