Paolo Conte

Il poeta che dipinse la musica

paolo_conte_massimo_padalino_ondarockTra gli scrittori di musica più intriganti del panorama italiano, animato da una curiosità smisurata e dotato di una cultura al di sopra della media, Massimo Padalino ha dedicato, un paio di anni fa, anche un libro a Paolo Conte,  in cui ha ripercorso la storia e l'esperienza musicale del "poeta che dipinse la musica". Per saperne di più, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con l'autore.

Allora, Massimo, per iniziare vuoi dirci quali sono, a tuo avviso, le innovazioni apportate da Paolo Conte nell'ambito della canzone italiana?
Non sono sicuro che Paolo Conte vada valutato solo ed esclusivamente per un eventuale potenziale da innovatore della canzone italiana; quello di cui invece sono sicuro è che Paolo Conte conosce il jazz e la musica sofisticata, ma ha un tocco per quella che chiamerei "semplicità complicata", che di certo in pochi possiedono fra gli autori di musiche e testi; prendi, ad esempio, “Azzurro”, il pezzo cantato da Celentano, di cui fu autore delle musiche; ebbene, è una semplice marcetta, eppure su quella marcetta Conte innesta una delle melodie più ariose, belle e fischiettabili, ma mai banali, della storia della musica italiana.

C’è stato un momento in cui la carriera di Conte ha subito uno scossone decisivo oppure, sostanzialmente, la sua musica ha seguito, durante gli anni, un percorso tutto sommato lineare?
Qualcuno potrebbe dire che lo scossone nella carriera di Conte c'è stato e corrisponde all'Lp del 1979 intitolato “Un gelato al limon”. Per come la vedo io, quello è solo l'inizio di una carriera che pian piano, nell'arco di cinque o sei anni, lo porterà alla ribalta nazionale e anche europea (basti vedere della fama che gode il Nostro in Francia, a Parigi soprattutto). In realtà, io credo che il punto di rottura nella carriera di Conte sia, per così dire, ante quem. Nel senso che Conte si è sempre e solo considerato un autore di canzoni, poi cantate da altri, mentre quando arriva all'altezza del suo primo disco, sebbene con riluttanza, e sebbene continui a tifare per le canzoni e non per chi le canta, si ritrova nel panni dell'autore-esecutore, che fino a pochi anni prima aveva rigettato, volendo lui essere autore in primis.

Paolo Conte è anche un appassionato di pittura, oltre che un pittore. In che modo l'arte dei colori ha inciso sulla scrittura dei suoi testi e delle sue musiche?
Ha inciso in rapporto all'analisi, da parte di Conte, di come il pittore riesca a rappresentare/evocare una certa parte della giornata (mattino, pomeriggio, sera, notte) con la sola resa dell'“aria”, della sua luce, della sua densità, o della sua rarefazione. Ecco, questo metodo basato sulla "rarefazione atmosferica" è anche uno dei grandi segreti del Conte autore di canzoni.

Che rapporto c'è fra la musica dell'astigiano e il concetto di paesaggio, interiore pittorico naturale, così come l'ha più volte lasciato intravedere Conte nelle sue molte interviste?
Da buon piemontese, sornione, ma sempre vigile sul reale, Conte ha intuito sin da piccolo, cioè da quando da bambino disegnava i trattori nei campi, che l'oggetto della rappresentazione è sempre la rappresentazione soggettiva di un oggetto. E se l'oggetto invece di essere un trattore è una emozione, poco cambia. Il metodo è sempre quello.

Non è un caso, quindi, che Conte si sia una volta descritto come uno "scrittore di paesaggi". Vuoi spiegarci meglio questa definizione?
Prendi una canzone come "Bartali". Prima di arrivare a "Bartali", c'è un “giorno appiccicoso di caucciù”, poi lui seduto “accanto a un paracarro” che pensa agli affari suoi, e ancora un giorno che si disfa in un tramonto arancio, una gran pisciata da fare, e fra tutte queste cose al protagonista della canzone gli scappa un pensiero-ritornello su "quanta ne avrà fatta Bartali/ quel naso triste come una salita/ quegli occhi allegri da italiano in gita/ e i francesi ci rispettano". Se essere poeti è dire più cose di quante ne dicano le parole che hai usato, allora Conte è senza dubbio un poeta con musica e parole.

Che radici ha lo humor di Paolo Conte? A prima vista, si potrebbe parlare di un misto di realismo e surrealismo sabaudo, con qualche punta di comicità anglosassone, vedi alla voce Swift o Smollet, ma poi più uno le ascolta le sue canzoni, e più i suoi testi sembrano nascere per partenogenesi dalle parole stesse, dal loro suono, dalle ambiguità semantiche che si trascinano appresso...
L'umorismo di Conte è senza dubbio sabaudo. È tutto, il suo, un osservare la realtà, deformandola mentre la si pensa, per poi marchiarla a fuoco con una mezza frasetta che nasconde il doppio senso umoristico. Poi, hai ragione: in Conte le assonanze, le dissonanze e le consonanze fra parole e parole, e quindi fra concetti e concetti, per quanto possano sembrare fra di loro distanti e poco correlati, sono mediate dall'istinto poetico. Bisogna sempre diffidare da quelli che dicono che i giochi di parole e le assonanze umoristiche sono cose sciocche; in realtà, sono cose serie nelle mani di persone serie e capaci, e cose sciocche nelle mani del resto dell'umanità. Rabelais docet. Gadda docet. Più un sacco di altri.

Per quanto riguarda la musica classica, uno dei compositori maggiormente apprezzati da Conte è Claude Debussy. Vuoi dirci in che modo la sua musica si ritrova tra le pieghe delle sue canzoni?
Debussy è il maestro e il poeta dell'acqua, dell'acqua che scorre eracliteamente sempre uguale a se stessa e sempre diversa, ed è questo l'ambito del suo impressionismo musicale che forse maggiormente piace a Conte. Gli piace il gioco di chiaroscuri, di lievi movimenti all'apparenza inutili, ma in realtà fondamentali, fra le note, e fra le emozioni espresse da queste ultime e la storia che veicolano. Siamo sempre nell'ambito di un arte "onda su onda", solo che qui Conte studia quel che c'è fra un'onda e l'altra, il moto invisibile, sonoro, musicale, lirico, in senso di poetico, che si propaga debussianamente nelle sue composizioni.

Nonostante siano soprattutto le parole dei suoi testi a colpire l'immaginazione degli ascoltatori, Conte ha sempre sostenuto che per lui la musica è più importante delle parole. Mi trovo d'accordo con questa sua affermazione, soprattutto se penso che fin troppi cantautori si concentrano sul "messaggio" da veicolare, dimenticandosi della musica che quello stesso messaggio deve veicolare. Insomma, si può scrivere un testo più o meno impegnato e/o efficace, ma se la musica vale poco, allora il "messaggio" è già disinnescato. Cosa ne pensi?
Penso che Conte nasce musicista. E in fondo ha sempre voluto fare il musicista. E ancor più in fondo avrebbe voluto farlo per l'eternità nel modo in cui lo fece agli esordi, nella prima metà degli anni Sessanta, quando lui scriveva le musiche della canzoni e altri ci aggiungevano i testi. Poi penso, come sosteneva Stravinskij, che la musica è un linguaggio che non veicola storie, non è legato alla narrazione, è astratto, e in quanto tale è un'espressione di tutto ciò che sfugge al linguaggio e che contribuisce alla creazione di quei "paesaggi interiori" che formano lo "spazio nella testa" di ognuno di noi. Se poi ci aggiungi le parole, il gioco cambia, e allora la musica entra in relazione con un significante che la significa, e ne rimane incatenata, nel bene e nel male.


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A proposito del brano “Un’altra vita”, che si trova su "Paris Milonga", Conte disse che si tratta forse della sua canzone "più religiosa". A tal proposito, che valore ha, se ce l’ha, la religione (e la spiritualità in genere) nella sua musica?
Conte è un cantore del realismo introspettivo, della realtà colta dal di dentro, magari talmente deformata dall'emozione, dal feeling, dallo sgocciolamento sentimentale, che finisce quasi per lambire, in preda alle fantasie dell'autore, territori davvero distanti da quelli tipici del tipico cantautor-piagnone. Perché Conte, diciamocelo, è un maestro della confessione/descrizione personale di fatti, cose, persone, talmente uncinata all'andamento e ai significati delle parole usate, spesso poetiche, fino al punto da abbordare la nave del vissuto – includendo nel vissuto anche il vissuto immaginario – e dirottarla verso mete davvero inusitate. Qui sta la grandezza di Conte.

Come ricordi nel tuo libro, Conte una volta disse che, “esteticamente parlando”, si sente “un antistoricista”. Vuoi spiegarci questa definizione?
Chiunque rifugga l'attualità in arte è fautore di una arte antistoricista. Rousseau il Doganiere, nel momento in cui dà vita ai suoi sogni esotici ed erotici più sfrenati e al contempo fantastici, è un autore antistoricista; non nel senso che neghi la storia, ma nel senso che lì, in quelle tele, la Storia non c'è. C'è invece un quid fuori dalla Storia che è una nuova storia/Storia. Conte, tolto l'elemento psichedelico tipico della pittura a suon di giungle deliranti del Doganiere, è uno che vive l'inattualità delle proprie mitologie personali: il fascino della Parigi anni Venti/Trenta, i sogni dei padri del jazz, le sfighe personali dei propri personaggi, che paiono confessioni autobiografiche col cuore in mano, ma non sono di certo da prendere alla lettera, come dei testi/diario dell'autore in vena di confidenze; piuttosto sono un canovaccio lirico dove noi ascoltatori proiettiamo il nostro film guidati dalla sceneggiatura contiana.

Quali musicisti e cantautori hanno maggiormente influenzato Conte?
A giudicare da quanto Conte stesso ci ha raccontato della sua collezioni di vinili all'epoca degli esordi, ci sarebbero i nomi di: Satchmo, Jelly Roll Morton, Fats Waller, Cole Porter e Duke Ellington, Earl Hines, Debussy, Giuseppe Verdi, Édith Piaf. Direi che già citando questi, abbiamo un bel ventaglio di carte da gioco in mano per poter comprendere la genesi del Conte paroliere e musicista.

Se dovessi scegliere un solo suo disco, quale sceglieresti e perché?
Sceglierei il suo debutto omonimo, del 1974. Perché lo sceglierei? Semplice: perché lì c'è già tutto o quasi il Conte a venire: la fatalità irridente e dolorosa del quotidiano fattasi poesia ("Lo scapolo", "Questa sporca vita", "Sono qui con te sempre più solo"), l'ironia sorniona e sabauda che resiste all'usura del tempo ("Onda su onda", ovviamente), e quella capacità – che nella letteratura è tipica, chessò, di un John Fante – di parlare dei fatti propri spacciandoli per altrui, attraverso un marcia lirica che, nel cinema, potrebbe essere quella del Cimino zona incipit/festa matrimonio de "Il cacciatore", mentre nella canzone italiana ha un erede nel Vinicio Capossela di "All'una e trentacinque circa", suo primissimo disco, uscito nel 1990, contiano anzichenò.

Un amico ti chiede di fargli una compilation delle migliori dieci canzoni di Conte. Tu quale scegli e perché?
Sono pigro. E se davvero questo mio amico mi è amico, è bene che si compri un greatest hits su Amazon! Scherzi a parte, eccone dieci del repertorio di Conte che ADESSO ho voglia di ascoltare:
1) "Azzurro" (mi dà un senso di leggerezza e voglia di vivere uniche);
2) "Onda su onda" (perché chi viaggia su un vascello guarda sempre il viaggio da sopra a sotto, mentre chi casca dal vascello vede tutta un'altra storia);
3) "Bartali" (perché è davvero da maestri scrivere una canzone su un campione ciclistico dove il campione ciclistico è quasi uno degli elementi del paesaggio e forse neppure il più importante);
4) "Parigi" (che è un bel modo di introdursi all'amore del Maestro per la Ville Lumière);
5) "Diavolo Rosso" (che è ancora una volta un capolavoro dove lo sport è metafora d'altro);
6) "Aguaplano" (un'altra canzone acquatica di Conte dal suono strano);
7) "La zarzamora" (che ben esemplifica l'amore del piemontese per le onomatopee, le parole dialettali, le invenzioni lessicali e cose così);
8) "Razzmatazz" (che ci introduce a quello spettacolo-romanzesco-pittorico ambientato nella Parigi di cento anni fa che tutti i "contologi" dovrebbero adorare);
9) "Argentina" (una canzone carica di quell'America Latina tipica di Conte);
10) "Sotto le stelle del jazz" (un classico).

C’è oggi, a tuo avviso, qualche cantautore italiano che incarna al meglio la lezione di Conte?
Il Vinicio Capossela del debutto, come accennavo sopra.

Dunque, oggi come oggi, nessuno è degno di ergersi a suo erede?
Molti lo ricalcano, ma non ci sono dei veri eredi di Conte. He's one of a kind, come direbbero gli anglofoni.

Quali sono state le difficoltà – se ne hai incontrate! - nello scrivere un libro su Paolo Conte?
Nessuna. È stato uno dei libri che mi è quasi uscito da solo. Si vede che quando mastichi tanto di qualcosa, fosse pure qualcosa di Paolo Conte, poi ti scappa da evacuare. Io ho evacuato.

Perché ascoltare Paolo Conte oggi?
Perché fa ancora caldo e ho voglia di un gelato al limon…