Certe canzoni racchiudono un'epoca, certe altre raccontano un luogo e lo cristallizzano al di fuori del tempo, consegnandolo al mito. “Diavolo Rosso”, canzone scritta da Paolo Conte e pubblicata nell'album “Appunti di Viaggio” (1982), di miti ne celebra addirittura due, l'uno funzionale all'altro, intrecciati vicendevolmente nei fili di una storia fatta di uomini forti e di paesaggi arcani, di quotidianità invisibili e di epopee lontane nella memoria.
Il canzoniere di Paolo Conte, si sa, è come un inesauribile mappamondo: più lo giri, più vi trovi facce, storie, suoni, luoghi reali e immaginari, destini che entrano ed escono dalle porte scorrevoli della vita. E non di rado, nel suo eterno peregrinare tra memorie a colori e reveries d'antan, l'avvocato astigiano ritorna a casa.
La leggenda popolare racconta che a Giovanni Gerbi l'appellativo di Diavolo Rosso fu dato nientemeno che da un parroco: il ciclista sfrecciò nel bel mezzo di una processione religiosa e il prelato, parecchio indispettito,gli affibbiò il peggiore degli appellativi. In quanto al colore, lo aggiunsero i presenti: quello indossava, e quello sarebbe rimasto per sempre.
L'immagine dell'eroe sportivo che piomba all'improvviso sulla monotonia di una provincia dai ritmi lenti e dai retaggi arcaici è la stessa su cui poggia il brano. L'idea di velocità che taglia in due il territorio e gli dona nuove prospettive è l'emblematica metafora di un mondo destinato, di lì a breve, a cambiare marcia. Il tema ritorna nell'ebbrezza della Topolino Amaranto, il cui rombo spezza la quiete di “un paesaggio che non va”, quello deturpato dalla guerra, e fa il paio con l'altro grande eroe in sella a una bicicletta, Bartali, il cui arrivo solleva un polverone di sabbia e giornali che svolazzano e lascia alle spalle un senso di lieve malinconia bucolica: “C'è un po' di vento, abbaia la campagna, c'è una luna in fondo al blu”.
Fin dall'inizio, dunque, la figura di Giovanni Gerbi, Diavolo Rosso, si ammanta del mito di un eroe imbattibile e fuori dagli schemi: la diceria popolare, sempre lei, narra altre gesta. Si racconta che, durante le corse, arrivasse ad accumulare un tale vantaggio da potersi permettere una sosta a bere un bicchiere al bar per inforcare di nuovo la bicicletta. Qualcuno sostenne che non esitò a salire su un treno per arrivare primo al traguardo. Certo è che, non essendo un abile sprinter, la sua tattica consisteva nel partire in fuga solitaria, nel tentativo - pressoché sempre riuscito - di restare solo al comando fino all'arrivo, talvolta con distacchi talmente incredibili da risultare oltremodo sospetti. I corridori francesi arrivarono persino a boicottare delle gare in segno di protesta nei confronti dei presunti sotterfugi messi in atto dal Diavolo Rosso: la vicenda finì sui giornali, con una lunga serie di strascichi polemichi, di accuse e di difese. Nel 1904 viene squalificato dal Tour de France. Intoppi e dicerie a parte, Gerbi iniziò a portare a casa trofei all'età di quindici anni, nel 1900, e smise soltanto nel 1941, quando ne aveva 56. Nel mezzo, una sfilza di record asfaltati e un terzo posto al Giro d'Italia, nel 1911.
In “Diavolo Rosso” l'eroe c'è ma non si vede, perché è lui stesso a far muovere l'intera canzone, trascinando la chitarra, il pianoforte e il rullante nel moto frenetico ed epico dell'esistenza. È come se fossimo in sella alla sua bicicletta che corre veloce e squarcia l'orizzonte mentre “controluce tutto il tempo se ne va”: la vita pedala più forte di qualsiasi campione, scorre invisibile tra le dita e soltanto quando ci si ferma, chiamati a gran voce dai compaesani che invitano a “bersi un'aranciata” al bar, si scopre quanto tempo è effettivamente durata la fuga.
Il ritornello incornicia quello che è probabilmente il più potente e visionario tra i testi mai scritti dall'avvocato: la trama si sviluppa in un susseguirsi di immagini che scorrono l'una dopo l'altra come diapositive, o come quadri dalle tinte fortissime. Dal manubrio di un mito si dipana un altro mito: quello del Nord-Ovest, dei paesaggi del Monferrato e delle Langhe, dei luoghi natali. La terra è un'entità viva, arcana e magnetica: è da essa che sgorgano, come in una perpetua magia, “quelle bambine bionde con quegli anellini alle orecchie, tutte spose che partoriranno uomini grossi come alberi che quando cercherai di convincerli allora lo vedi che sono proprio di legno”. Anche Diavolo Rosso è un uomo grosso come un albero, ma a lui è data una possibilità tutta nuova: quella di poter osservare il perpetuarsi delle generazioni e delle stagioni da un'altra prospettiva, di uscire dai panorami natii per conoscere il mondo, di ritornare alle origini forte di altre esperienze: “guarda le notti più alte di questo Nord-Ovest bardato di stelle e le piste dei carri gelate come gli sguardi dei francesi” in un “valzer di vento e di paglia”.
Il viaggio non è soltanto fisico, ma anche e soprattutto trascendentale: il contrasto tra l'apparente immobilità delle campagne - racchiuse nel ciclo immutabile delle stagioni e degli anni - e il veloce moto del ciclista, permette di entrare in una nuova dimensione, quella in cui anche l'impercettibile è, se non palpabile, quantomeno visibile agli occhi: la morte contadina si insinua e si mimetizza, “risale le risaie e fa il verso delle rane e puntuale arriva sulle aie bianche come le falciatrici a cottimo”. All'ordine metodico dell'ineluttabile fa da contraltare, nella strofa successiva, il caotico labirinto della vita: i ricordi affiorano come “voci dal sole e altre voci, da questa campagna altri abissi di luce, e di terra e di anima niente”, in una visione accecante nella quale si sovrappongono il cavallo e il chinino, voci e bisbigli d'albergo, amanti di pianura, regine di corriere e paracarri che portano in dote “la loro discrezione antica” che “è acqua e miele”. Terra e uomini sembrano così mescolarsi indissolubilmente nell'epopea di un mondo ormai cancellato dall'arrivo di una modernità mai citata ma sempre incombente: un mondo scandito da stagioni e rituali che si perdono nella notte dei tempi.
L'immagine delle lucciole che girano “nei cerchi della notte” e di un buio che “sa di fieno e di lontano” ha una potenza quasi leopardiana, mentre “la canzone forse sa di ratafià” spezza l'incantesimo collocando il brano in un luogo preciso (il Piemonte, zona di produzione di questo particolare liquore) e in un'atmosfera più conviviale e umana: un necessario ritorno alla condizione terrena.
Nella versione primigenia, quella contenuta in “Appunti di Viaggio”, “Diavolo Rosso” è un veloce foxtrot sospinto dal contrabbasso e dalla cassa: anche la veste musicale ha dunque un afflato folk. Il brano mantiene la medesima struttura ma acquista ulteriore profondità e sentimento epico nelle versioni live, divenute da subito uno dei momenti focali e più intensi dei concerti di Paolo Conte, nonché uno dei più attesi dal pubblico. Le interpretazioni, impreziosite dai fiati, sforano talvolta i dieci minuti e possiedono l'innato dono di non risultare mai uguali a se stesse: c'è sempre uno strumento, un riff, un tocco di pianoforte, un assolo a conferire un sapore unico a ogni esecuzione, perpetuando un'epopea abbacinante come un lampo mentre, controluce, tutto il tempo se ne va.
Quelle bambine bionde
con quegli anellini alle orecchie
tutte spose che partoriranno
uomini grossi come alberi
che quando cercherai di convincerli
allora lo vedi che sono proprio di legno
Diavolo Rosso dimentica la strada
vieni qui con noi a berti un'aranciata
controluce tutto il tempo se ne va
Guarda le notti più alte
di questo Nord-Ovest bardato di stelle
e le piste dei carri gelate
come gli sguardi dei francesi
un valzer di vento e di paglia
la morte contadina
che risale le risaie
e fa il verso delle rane
e puntuale
arriva sulle aie bianche
come le falciatrici a cottimo
Voci dal sole e altre voci
da questa campagna altri abissi di luci
e di terra e di anima niente
più che il cavallo e il chinino
e voci e bisbigli d'albergo
amanti di pianura
regine di corriere e paracarri
la loro, la loro discrezione antica
è acqua e miele
Diavolo Rosso dimentica la strada
vieni qui con noi a berti un'aranciata
controluce tutto il tempo se ne va
Girano le lucciole
nei cerchi della notte
questo buio sa di fieno e di lontano
e la canzone forse sa di Ratafià