Sintetizzare l’eredità di un musicista o una band è sempre stato uno dei fallimenti più evidenti dell’industria discografica. Come comprimere in una pubblicazione la grandezza di quell’artista? Spesso è stato frainteso “best of” con “greatest hits”, ma anche quando l’intenzione genuina di selezionare il meglio è stata messa sul piatto, molto raramente si è giunti a un risultato soddisfacente. Si è inoltre spesso faticato a trovare un equilibrio quantitativo, passando da compilation scarne e colpevoli di clamorose omissioni a selezioni fin troppo abbondanti e dispersive (e in tempi recenti, alla totale mancanza di filtri, con le cosiddette ristampe super deluxe). La nascita, in età digitale, delle playlist più o meno ufficiali non solo non ha aiutato, ma ha probabilmente peggiorato la situazione.
Di certo, con i Beach Boys e Brian Wilson questo equilibrio non è ancora stato trovato, tanto che la loro legacy è oggetto di malcontento tra gli appassionati: nonostante tentativi recenti, non ci sono compilation, best of o cofanetti con un’ottima capacità di sintesi, e certe etichette sulla loro musica sembrano indelebili. In particolare, la musica di Brian Wilson soffre di fraintendimento, soprattutto in Italia, paese dove ha storicamente faticato a trovare la considerazione di altri colossi del pop.
Questa playlist è un tentativo di rendere giustizia alla complessità della carriera di Wilson: con l’eccezione degli anni Novanta, periodo in cui non è riuscito a pubblicare qualcosa di rilevante (“Orange Crate Art” è di fatto un disco di Parks), tutti i decenni sono stati presi in considerazione; ci sono i capolavori acclamati, ma altri misconosciuti (“Winter Symphony” è forse l’esempio più eclatante); è stato preso in considerazione uno spettro il più possibile ampio delle sue anime musicali, dalla più “facile” alla più “sperimentale” (a proposito di etichette). La stessa tracklist è stata strutturata non in ordine cronologico, bensì assecondando un percorso, che giunge nelle fasi finali ai momenti più malinconici ed emotivamente strazianti del musicista e della persona Brian Wilson.
Come tutti i tentativi, questa playlist è ben lontana dall’essere definitiva. Le assenze, alcune palesi, altre più nascoste, sono lì: non ci sono molte hit degli esordi, “colpevoli” di alimentare le suddette etichette e comunque incapaci di reggere il paragone con i pezzi della maturità; non ci sono raggi di luce che avrebbero meritato l’inclusione tanto quanto i pezzi qui presenti (uno su tutti, “The Warmth Of The Sun”); non c’è “Love & Mercy”, il pezzo più famoso della sua carriera solista; non c’è “Darlin’”, a cui ho sempre preferito la versione originale “Thinkin’ ‘Bout You Baby”, cantata da Sharon Marie (ma non presente in streaming) e nemmeno “Do It Again”; delle sue due opere massime, “Pet Sounds” e “SMiLE”, sono state scartate pedine straordinarie.
I difetti, in sostanza, sono tutt’altro che pochi, ma vanno a evidenziare un’ovvietà: è letteralmente impossibile chiudere Brian Wilson in 50 canzoni. Tirando le somme, questa playlist può essere definita un compromesso, un possibile punto di partenza per chi vuole iniziare a esplorare la musica di Wilson al di là degli stereotipi e delle facili narrative che vanno a ripetersi da decenni, inclusa quella di genio maledetto.
Prima di chiudere, alcuni chiarimenti:
- talvolta le scelte sono state dettate dai limiti del catalogo streaming: un esempio su tutti, “Still I Dream Of It” non è attualmente disponibile sulle piattaforme, se non nella versione demo dell’album “I Just Wasn’t Made For These Times”. I limiti sono ancora maggiori se si considera la mole di registrazioni che ancora non ha trovato una pubblicazione ufficiale;
- tutti i pezzi concepiti per il progetto “SMiLE” sono stati inseriti nella versione delle “Sessions”, con parziale eccezione di “Surf’s Up”, qui presente nella sublime versione voce e piano del 1967 (comunque inedita prima del 2011);
- i pezzi fino a “Pet Sounds” incluso sono stati inseriti nella versione mono, come originariamente intesi da Wilson. Fa eccezione “In The Back Of My Mind”, in stereo per permettere di captare meglio la complessità della coda strumentale;
- sono stati presi in considerazione solo pezzi di cui Wilson è stato il principale autore. Fa parziale eccezione “Sail On, Sailor”, la cui paternità non è mai stata del tutto definita.
13/06/2025