Autore: Rob Chapman
Titolo: Syd Barrett. Un Pensiero Irregolare
Editore: Stampa Alternativa
Pagine: 363
Prezzo: 22 euro
Difficile dire, nell’anno 2012, qualcosa di veramente nuovo e interessante su un personaggio come Syd Barrett, la cui personalità irriducibilmente ermetica e la mole di parole spesa nel tentativo di analizzarla viaggiano da sempre in un rapporto di evidente contrappasso.
Poche persone come Rob Chapman, probabilmente, potevano affrontare di nuovo una nuova biografia barrettiana in maniera autorevole, a un tempo umile e appassionata, cercando di discernere costantemente il gossip dalla prosa, l’icona dall’artista, sondando miti e aneddoti con fonti di primissima mano, dalle interviste alle lettere di Libby, investigate dal punto di vista di chi c’era.
Dove individuare, quindi, le origini della cupa vicenda di Syd Barrett? Chapman segue il passo saltellante di un affascinante ragazzetto di Cambridge ancora conosciuto come Roger Keith, dalla naturale inclinazione artistica, più orientata verso la pittura che la musica. Sognante, eccentrico, di poche parole, ma tutto sommato non troppo diverso dai propri coetanei. Anche i primi accostamenti alla chitarra – di cui non sarà mai un grande virtuoso, seguono in realtà i binari abbastanza tradizionali delle notti attorno al fuoco nei campeggi coi compagni.
Ma il contesto è pur sempre quello degli anni Sessanta, e Chapman lo traccia in maniera particolarmente lucida ed esaustiva: Londra spalanca le sue porte della percezione e si ritrova popolata di personalità beat (l’influenza di Kerouac, le visite di William Burroughs), appetiti esotici ed esoterici (l’India e l’I-Ching) e soprattutto l’arrivo in Inghilterra dell’LSD, il potente allucinogeno senza il quale probabilmente la storia della popular music sarebbe andata in maniera diversa.
Syd approccia le esperienze “acide” in maniera non troppo dissimile dai suoi compari (dettaglio che pone più di un dubbio sui presunti effetti irreparabili dell’allucinogeno sulla sua persona) ed è sempre più affascinato dalle possibilità multidisciplinari dell’arte.
In un lasso di tempo incredibilmente breve si consuma quindi l’esperimento Pink Floyd, intesi come “esperienza” psichedelica (tutt’altra storia rispetto al colosso progressive a venire): Mike Leonard, l’intellettuale proprietario dell’appartamento di Syd, inizia la band al light show, le proiezioni che amplificano enormemente la potenza di visione del suono psichedelico e che diventeranno parte integrante dell’immaginario dell’epoca.
A dispetto di una pallida gavetta a suonare cover r&b, le perfomance e il suono dei Pink Floyd diventano di colpo qualcosa di unico, estatico e liberatorio, tutto appoggiato sulle intuizioni del ragazzo coi riccioli e le sinergie scatenate con gli altri musicisti. Un wall of sound che travolge le serate dell’Ufo e, purtroppo, anche le classifiche.
Mai come in questo caso infatti, tanto eccitante e vertiginosa l’ascesa, quanto rovinosa e amara la caduta. L’underground d’Albione finisce strozzato nel giro di un biennio dall’interno e dall’esterno: la pressione delle multinazionali del disco, gli artigli dei tabloid perbenisti, il flower power ridotto ben presto a macchietta.
Le prospettive di carriera d’altro canto ammiccano alla band in maniera più convincente rispetto alle potenzialità dell’avanguardia e il buon senso di Roger Waters infine avrà la meglio: via libera al contratto con la Emi e alle esibizioni a Top Of The Pops.
Ma qual è il ruolo rivestito da Barrett in questa rapida catena di eventi? Syd la popstar non la sa proprio fare, si diverte sempre meno a suonare, odia il playback e non ha il carisma del leader che i media tanto si aspettano da lui. Già in quest’istante quindi il diamante pazzo iniziava lentamente a opacizzarsi.
I live e le apparizioni successive – analizzate da Chapman meticolosamente una per una - mostrano un Syd sempre più assorto, a disagio con le luci della ribalta, finché nelle ultime esibizioni smette del tutto di suonare, fermandosi in catalessi con la chitarra in braccio. L’istantanea non poteva essere più appropriata per descrivere lo stato di uno spirito innocente che, votato in maniera del tutto istintiva e infantile alla sperimentazione, vede il mondo intorno a sé cominciare a ruotare in senso opposto, senza trovare la forza di alzare un dito e senza, probabilmente, nemmeno capire completamente quello che sta succedendo.
Di lì a breve Syd diventa un peso morto nell’economia della band, viene lentamente scaricato dai suoi compagni che per i loro live preferiranno contattare David Gilmour (a sua volta amico di Barrett), mentre Waters può finalmente sfogare la sua indole da primadonna.
Nella primavera del 1968 le strade dei Floyd e di Barrett si sono divaricate definitivamente.
Quello che segue è il tentativo di un percorso solista alquanto zoppicante, ma che pure prende il via in maniera promettente: “The Madcap Laughs”, finalmente un disco come lo voleva fare Syd, una manciata di canzoni stravaganti (da "Octopus" a "Golden Hair", il libro le studia una per una), pregne di rimandi modernisti e surrealisti, il cui centro pulsa da qualche parte nelle misteriose campagne inglesi. Un disco che dimostra, qualora ce ne fosse stato il bisogno, quanto l’inclinazione di Syd fosse più orientata alla sperimentazione e all’intimità da cameretta che non alle esibizioni da stadio.
Ma il destino di Barrett era già segnato: la Emi gli commissiona un nuovo disco, in regia arriva stavolta David Gilmour, che per riuscire a chiudere l’album sarà costretto veramente a fare i miracoli. La fervida fantasia di Syd è ancora capace di numeri eccezionali (“Baby Lemonade”, “Dominoes” su tutte), che appaiono però come delle oasi in un deserto di stasi e di creatività definitivamente compromessa.
Syd è ormai in studio un musicista del tutto intrattabile e improduttivo, paranoia e gesti compulsivi decorano la sua vita privata, mentre nelle ultime, sporadiche, interviste, si limita a risposte sibilline e sconclusionate.
Chapman ricostruisce il trapasso verso il vegetable man che è divenuto Syd, sviscerando interviste, foto e sguardi e si occupa infine di passare in rassegna tutte le favole alimentate dalla sua assenza, miti e curiosità morbosa scaturiti, in maniera indiretta e paradossale, proprio dai successi che gli ex-compagni stavano riscuotendo parallelamente sulla strada dello stardom.
Barrett vive fino al momento della scomparsa nell’estate del 2006 nell’appartamento della sorella Rosemary, conducendo una vita sobria e appartata, lontana dallo stereotipo del “pazzo” pompato dai media. Dovette semmai affrontare proprio le dure condizioni a cui lo avevano costretto gli appostamenti di fotografi e curiosi, il cui deleterio voyeurismo, sotto il ben noto slogan velato di retorico fatalismo "Il music-business, si sa, è fatto così", probabilmente avrebbe spinto alla follia anche la più vigorosa delle menti.
Cos’è che quindi ha portato fuori strada tanto precocemente il genio di Syd Barrett, l’acido, il successo, lo showbitz, o un travaglio più profondo? Chapman non dà soluzioni definitive, per lo meno non lo fa esplicitamente, la citazione di una risposta di Barrett in un’intervista a Mick Rock, esprime però meglio di ogni altra cosa l’intelletto del giullare di Cambridge: "Il mio pensiero è irregolare. E in tutti i modi non sono niente di quello che tu pensi che io sia".
Traduzione e postfazione a cura di Gianpaolo Chiriacò.