Charles Mingus

Blues and roots, la macchina del tempo dell'ingegnoso contrabbassista

Il contrabbassista jazz Charles Mingus approda alla parte più interessante della propria carriera in seguito a un proficuo percorso iniziato negli anni 40 del ‘900 nell’ambito delle big band swing. Dopo avere attraversato la storica svolta del be bop, suonando anche con Charlie Parker, J.J. Johnson e Miles Davis, a partire dalla metà degli anni 50, transita verso un hard bop dai contorni originali, piacevolmente imprevedibili e annunciatori delle avanguardie jazz che stavano per fare la loro comparsa.
L’esito discografico di questo itinerario jazzistico viene immortalato, tra il 1956 e il 1963, da una serie di Lp più che convincenti, in grado di distinguersi per la natura avventurosa degli arrangiamenti e delle idee espresse. Tra essi troviamo, collocato in una posizione preminente, “Blues & Roots”, registrato nel febbraio 1959. Il disco nel quale emerge con una veemenza particolarmente persuasiva la estrosa capacità compositiva di Mingus prende vita alla confluenza di tre corsi creativi principali.
Da un lato, la capacità del leader di orientare audacemente il suono e le sperimentazioni che insaporiscono l’hard bop sul quale rimane fondato il disco. Dall’altro lato, l’utilizzo del blues e delle prime forme di gospel come fonte di ispirazione per lo spirito che anima le tracce. Infine, il ricorso alla prima manifestazione jazz, il New Orleans jazz, come materiale concreto con il quale costruire e sviluppare gli arrangiamenti dei brani.

Possiamo così comprendere meglio a cosa si riferisca il titolo dell’album: non solo l’annuncio del genere blues come paradigma grazie al quale orientare le session, bensì un ritorno alle radici della musica moderna americana sbocciata all’alba del ‘900 nel sud degli Stati Uniti (in particolare, in Louisiana e in Mississippi). Come dice lo stesso Mingus nelle note di copertina, le registrazioni di “Blues & Roots” giungono come una risposta a chi lo accusava di essersi dedicato negli anni precedenti a lavori troppo intellettuali e poco coinvolgenti. Un’accusa pretestuosa, alla quale il musicista decide di rispondere componendo da solo sei pezzi, la cui ritmica a dir poco trascinante esercita una sicura presa sui sensi dell’ascoltatore.
L’emozionante impatto sonoro così generato è accresciuto e impreziosito dal vivace pennello di atmosfere appassionate, che dipingono con colori accesi la tradizione musicale afroamericana sulla tela del presente.
In questo album osserviamo dunque la passionale spontaneità insita nel blues, negli spiritual e nel gospel di inizio ‘900 scorrere liberamente sotto la superfice di un dialogo strumentale collettivo talvolta travolgente, talvolta ironicamente baldanzoso, talvolta fascinosamente irregolare. Una conversazione informale e appassionata, i cui vividi fraseggi, sono incanalati verso la modernità grazie alla struttura tema-improvvisazioni-tema che caratterizza lo stile jazz hard bop.

Mingus si incarica di scrivere i temi e organizzare la musica di tutti e sei i pezzi che formano “Blues & Roots”, assemblando una formazione relativamente ampia proprio allo scopo di evocare il clima di creazione comunitaria tipico del New Orleans jazz anni 20. La sezione ritmica (pianoforte, contrabbasso e batteria) costituisce così l’ancoraggio per le evoluzioni di ben sei fiati, i quali si esprimono con efficacia nei concitati intrecci a più voci, nelle fantasiose figure melodiche che compongono i temi di entrata e uscita delle composizioni e, infine, negli assoli di volta in volta declamati all’interno dei singoli brani.
Oltre al leader delle session (contrabbasso), sono quindi nove i musicisti che compaiono nell’Lp: Jackie McLean e John Handy (sassofono alto), Booker Ervin (sassofono tenore), Pepper Adams (sassofono baritono), Jimmy Knepper e Willie Dennis (trombone), Horace Parlan (pianoforte, con l’eccezione di "E's Flat Ah's Flat Too"), Mal Waldron (pianoforte in "E's Flat Ah's Flat Too"), Dannie Richmond (batteria). Gli artisti elencati appartenevano alla stessa generazione di Mingus e ne avevano replicato, prima di arrivare a queste session, il medesimo percorso stilistico. Essi occupano un posto qualitativamente rilevante nel panorama hard bop, benché due di loro spicchino per importanza e abilità: Jackie McLean e Pepper Adams.
McLean era nel 1959 già solidamente affermato come uno dei più capaci sassofonisti alti, in grado di dare una nuova veste, ricca allo stesso tempo di anima e di intelletto, allo stile rivoluzionario di Charlie Parker. Adams era nel ’59 all’avvio della sua stimolante collaborazione musicale con Donald Byrd, mettendo al servizio anche di altri rinomati gruppi hard bop il suo sassofono deciso e intelligentemente spigoloso.
Al momento delle registrazioni, i musicisti convocati, alcuni dei quali avevano già collaborato con Mingus in passato, ricevono da lui solamente indicazioni approssimative su melodie e ritmi. Viene in questo modo ricercato un risultato preciso: quello di favorire l’approccio spontaneistico esplicitamente evidenziato dalle esecuzioni di gruppo che contraddistinguono questo disco con la loro esuberante e contagiosa istintività.

Charles Mingus - Blues & Roots


Il punto di partenza dal quale Mingus delinea il feeling di fondo dell’album è “Haitian Fight Song”, un brano da lui scritto e inciso nel 1957, dunque due anni prima, per l’album “The Clown”. Il pezzo è caratterizzato da una introduzione solistica del contrabbasso, alla quale si aggiungono successivamente gli altri strumenti, in un crescendo costellato da assoli improvvisati capaci di trasportare l’ascoltatore nella New Orleans di inizio ‘900.
Lo stesso schema musicale è riprodotto in quattro delle sei composizioni che troviamo in “Blues & Roots”: “Wednesday Night Prayer Meeting”, “Moanin’” (con il sassofono baritono che sostituisce il contrabbasso nell’introduzione), “Tensions” e "E's Flat Ah's Flat Too".
L’acuta ed energica inventiva dimostrata dagli arrangiamenti di questi brani sembra sopraffare la natura ordinata e simmetrica del jazz hard bop in favore di una battaglia suggestivamente combattuta dai fiati sul battito incalzante e diretto della batteria. L’esito è un fondersi di linee ritmico-melodiche dalle tinte briose e incisive, sovrapposte tra loro come voci che esprimono con veemenza i diversi profumi sonori uditi a New Orleans mezzo secolo prima. Esse ci rivelano in modo esplicito come il percorso del genere jazz sia un continuum ininterrotto, che avanza aggiungendo nuovi piani a una costruzione già esistente, seguendo un progetto già tracciato nelle sue linee di fondo da architetti precedenti.
Gli altri due pezzi che completano l’album, “Cryin’ Blues” e “My Jelly Roll Soul”, rivisitano rispettivamente gli intarsi di blues e vaudeville che negli anni 20 rappresentavano gli elementi ornamentali di molteplici composizioni jazz.
Questo impetuoso omaggio alla trazione jazz si interrompe quando i singoli musicisti prendono la parola, sovrastando temporaneamente la congregazione di strumenti, per descrivere brevi assoli che riportano l’ascolto nell’ambito della contemporaneità di fine anni 50. Si tratta di assoli relativamente brevi, i quali riprendono le suggestioni gospel, blues e New Orleans jazz lanciate durante la parte introduttiva di ogni brano, attualizzandone però il profilo. Viene in questo modo generata la già citata miscela di radici e modernità che caratterizza questo disco.

Tra gli assoli più significativi portati in dote dai jazzisti presenti alle registrazioni, citiamo quello di Booker Ervin al sassofono tenore in "Wednesday Night Prayer Meeting" (dal minuto 2.34 al minuto 3.58). Qui è palpabile la sensuale e fervente religiosità espressa dallo scuro e robusto timbro del sassofonista, tanto avvincente da rendere visibili i corpi dei fedeli che danzano convulsi attraverso l’eccitante sequenza di note. L’improvvisazione prende del tutto il sopravvento mentre Ervin viene lasciato solo nella sua torrida declamazione di fede nel jazz dagli altri musicisti, i quali lo accompagnano per trenta esaltanti secondi unicamente con estatiche urla di incoraggiamento e battiti di mani.
John Handy si distingue invece per il suo dinamico assolo in "E's Flat Ah's Flat Too" (dal minuto 3.28 al minuto 4.07). Un esercizio di agilità nello stile inconfondibile di Charlie Parker, aromatizzato dalle voluttuose ombre del blues.
Va detto che le varie parti soliste suonate tra i solchi di questo vinile dai numerosi collaboratori di Mingus, benché mediamente di buon livello, rimangono sullo sfondo rispetto alla evocativa ambientazione creata dai brani nel loro complesso. Quest’ultima viene così privilegiata, ponendo l’effetto d’insieme sopra le prestazioni dei singoli membri e innalzando un edificio musicale tanto emozionante quanto inusuale per l’hard bop di fine anni 50.
In “Cryin’ Blues”, “Tensions” e “My Jelly Roll Soul”, Mingus stesso intraprende tre interessanti assoli di squisita fattura e notevole immediatezza. Nel primo caso la ripetizione di note percussive e i fraseggi piacevolmente articolati fanno della loro cadenza sostenuta una imbarcazione con la quale condurre il suono del contrabbasso dalla riva della tecnica a quella dell’intrattenimento colto. Per quanto riguarda “Tensions”, le inesauste linee spezzate seguite dal suo strumento transitano gradualmente in una breve serie di marcati glissando (al minuto 1.25, al minuto 1.48 e dal minuto 2.17 al minuto 2.24), dense parabole sospese tra sarcasmo ed espressività. Infine, “My Jelly Roll Soul”, dedicata al grande pianista ragtime e dixieland jazz Jelly Roll Morton, ospita un assolo maggiormente disteso, che sprigiona fantasiose scintille muovendosi pacatamente attorno al tema principale.

L’accompagnamento fornito da Mingus ai solisti e agli arrangiamenti dispiega distintamente la versatilità tipica di questo ottimo musicista. Egli percorre con ferma vitalità e sempre nuove soluzioni ritmiche e sonore le battute dei sei brani, catalizzando l’attenzione dell’ascoltatore ben oltre il ruolo ritmico solitamente assegnato al contrabbasso.
Uno degli aspetti più gratificanti di questo Lp può essere individuato nei temi di entrata e uscita delle composizioni, spesso percorsi con gioiosa impertinenza da improvvisazioni collettive in sottofondo. Tra questi, citiamo quello di “Moanin’”, dove il sassofono baritono di Pepper Adams disegna un prolungato, profondo e spiritoso glissando dai toni gravi, al quale giunge puntuale la risposta degli altri fiati, plasmando una figura composita dal groove irresistibile.
Il tema di “Tensions” tocca invece la nostra immaginazione con il clima di apprensione, stupore e aspettativa che si prova nell’osservare un acrobata intento a camminare lentamente su una corda sospesa nel vuoto. Ad affrescare questa scenografia sonora è l’inseguimento vicendevole dei fiati, i quali accelerano progressivamente il ritmo di note staccate, serrate e circospette.
L’ultimo tema che ricordiamo è quello che apre l’album: "Wednesday Night Prayer Meeting". Qui il gospel profuso con impeto dai fiati prende la forma visibile di un predicatore dalla fede ardente, attorniato dai volti eccitati della congregazione religiosa accorsa al suo infuocato sermone.

Tre mesi dopo la realizzazione di “Blues & Roots”, Mingus ripeterà parzialmente la stessa formula musicale in un altro bellissimo disco (“Ah Um”, registrato nel maggio 1959). Tuttavia, questo primo esperimento nel ricongiungere le origini della musica moderna afro-americana con il jazz di fine anni 50, si eleva come un esempio unico, sapiente ed elettrizzante di rievocazione del miglior passato che la musica abbia da offrire. “Blues & Roots” è una macchina del tempo fabbricata dal genio di Mingus, entusiasmante contrabbassista, fine compositore e ingegnoso arrangiatore, immortalato nel periodo migliore della sua carriera.

15/05/2025