Il sassofonista tenore Sonny Rollins fa ingresso nel mondo del jazz professionale di alto livello nel 1949, sul finire della rivoluzione be bop innescata quattro anni prima e portatrice di una svolta fondamentale nella storia di questo genere musicale. In seguito a collaborazioni di grande valore (Miles Davis, Fats Navarro, J.J. Johnson etc.), approda alla carriera solista partecipando da protagonista al mutamento successivo sperimentato dal jazz: la nascita dell’hard bop.
I suoi primi lavori, alternati a presenze come sideman in due album di Thelonious Monk, incontrano subito consensi diffusi tra pubblico e critica. La strada già compiuta con successo pone così l’artista statunitense nelle condizioni ideali al momento della sua esplosione creativa, avvenuta durante il triennio 1955, ’57 e protrattasi fino alla primavera del ‘58.
In questa fase, certamente la migliore che questo grande musicista abbia attraversato, egli registra molti ottimi dischi hard bop, tra i quali diversi capolavori ricordati ancora oggi come pietre miliari del jazz (“Tenor Madness”, “Saxophone Colossus”, “Sonny Rollins Vol. 1”, “Sonny Rollins Vol. 2”, “A Night At The Village Vanguard” etc.).
In tale contesto musicale si colloca anche “Newk’s Time”, registrato nel pomeriggio del 22 settembre 1957 per circa 34 minuti di durata. Il disco prende il nome da uno dei soprannomi di Rollins, “Newk”, conferitogli a causa della sua notevole somiglianza con un giocatore statunitense di baseball attivo negli anni 50: Don Newcomb.
Lo stile di Rollins al sassofono tenore esce dal be bop mantenendone l’incisività e l’energica impostazione, ma tra il 1953 e il ’56 si evolve, acquisendo un profilo più diretto, scevro da pronunciati ornamenti sonori. Qui, il senso dell’organizzazione che egli trasferisce ai suoi assoli è chiaramente percepibile ed è in grado di tenere strettamente assieme idee molto interessanti e intrise di disciplinata immaginazione. Esse sono scolpite dal timbro consistente e lievemente aspro del suo strumento, originando un riverbero di accesa intraprendenza inevitabilmente destinato a entusiasmare l’ascoltatore e a incoraggiarne la riflessione.
In questa occasione, attorno al sassofonista ventisettenne si aggregano tre talentuosi jazzisti approssimativamente suoi coetanei: Doug Watkins (contrabbasso), Wynton Kelly (pianoforte) e Philly Joe Jones (batteria). La session, prodotta da Alfred Lion per l’etichetta Blue Note (tecnico del suono il miracoloso Rudy Van Gelder) aggrega quindi una formazione a quattro dalla strumentazione comune per l’epoca, ideale per rappresentare in modo fluido l’avvincente pensiero musicale di Rollins.
A certificare la elevata caratura dei tre sidemen è il loro rispettivo retroterra artistico, maturato prima di giungere in studio per incidere questo album.
Watkins, fin dal 1954 compare nella prima versione dei Jazz Messengers per poi prestare la sua opera in una serie di grandi vinili hard bop pubblicati a nome di (tra gli altri): Jackie McLean, Hank Mobley, Lee Morgan, Donald Byrd, John Coltrane, Horace Silver etc.. Continuerà su questa elettrizzante strada fino ai primi anni 60.
Pianista di Dinah Washington e Dizzy Gillespie, anche Kelly partecipa a un gran numero di celebri dischi hard bop tra la metà degli anni 50 e il 1965, guadagnandosi altresì una reputazione di grande rilievo come titolare di propri lavori solisti compresi in questa fascia temporale.
Infine, Jones raggiunge le registrazioni di cui stiamo parlando mentre è ancora membro del primo eccezionale quintetto di Miles Davis (1955-58) e a una sola settimana di distanza dalla partecipazione a “Blue Train” di John Coltrane. Oltre a queste tappe di primaria importanza, troviamo il batterista in una moltitudine di bellissimi 33 giri hard bop fino al ’63, per poi mantenere buoni standard lungo tutti gli anni 60.
Tutti e tre i musicisti avevano già cooperato con Rollins in precedenza. Se Jones e Kelly avevano incrociato il cammino del leader di questa session già ai tempi del be bop, essi suonano rispettivamente in “Tenor Madness” (1956) e in “Sonny Rollins Vol. 1” (1957). Per quanto riguarda Watkins, possiamo leggere il suo nome nelle note ufficiali di “Saxophone Colossus” (1956).
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L’esperienza vantata dai tre musicisti, sia sotto la direzione di Rollins che in senso più ampio, detiene una importanza non trascurabile per la buona riuscita di queste registrazioni. Infatti, appaiono evidenti la facilità di dialogo e l’intesa ritmica efficacemente sviluppate dal gruppo assemblato per “Newk’s Time”. Ciò permette agli arrangiamenti di includere i tratti inusuali della sperimentazione, sebbene quest’ultima si mantenga saldamente entro il perimetro dell’hard bop. La modifica del linguaggio usualmente utilizzato in questo stile di jazz è un punto sul quale Rollins investe molte energie. Egli si dedica con successo al difficile compito di inventare nuove modalità espressive pur rimanendo nell’ambito di una struttura prestabilita (tema-improvvisazioni-tema).
La linea di fondo del disco può essere tratteggiata appunto in questi termini: innovare l’hard bop, tanto nella configurazione di alcuni passaggi quanto negli assoli, accentuandone certe caratteristiche e ricombinandone con sagace inventiva gli elementi costitutivi.
In questo senso emerge vivacemente l’uso del ritmo come elemento principale in un fantasioso passaggio solistico del sassofono tenore (“Tune Up”, ascolto dal minuto 2.01 al minuto 2.30). Qui una cadenza serrata, quasi percussiva, sostituisce gli accordi come base sulla quale improvvisare, sottolineando con elegante ironia la capacità di Rollins nell’escogitare inconsuete e sorprendenti raffigurazioni musicali. Analogamente le note del sassofonista si allungano, scivolando voluttuosamente per qualche secondo, nel corso del dinamico fraseggio solista in “Blues For Philly Joe” (ascolto dal minuto 1.21 al. minuto 1.31). Un diversivo impiegato anche in “Surrey With The Fringe On Top”, dove una parte del tema è ripetutamente usata, dilatandone e levigandone le note, al fine di caratterizzare l’assolo iniziale (ascolto dal minuto 0.57 al minuto 3.21).
Non sono solamente i particolari contenuti negli assoli di Rollins a determinare il taglio innovativo delle sei tracce che compongono l’album. Ad esempio, la strumentazione viene ulteriormente ristretta ai soli contrabbasso, batteria e sassofono tenore nel primo minuto e mezzo di “Tune Up”, mentre “The Surrey With The Fringe On Top” è addirittura suonata sotto forma di concitata conversazione a due tra il leader e la batteria.
Da notare, inoltre, come il tema di “Asiatic Raes” sia equamente ripartito in due atmosfere distinte: latineggiante la prima e più lineare la seconda. Questa divisione viene poi riprodotta anche all’interno dell’assolo di apertura (di Rollins), il quale si sviluppa su un accompagnamento decisamente esotico fino al minuto 1.23, quando riprende un ritmo classicamente dispiegato.
Le deviazioni musicali appena descritte attraversano le sei tracce del disco, nel quale prevalgono i tempi veloci (“Tune Up”, “Asiatic Raes”, “Surrey With The Fringe On Top” e “Blues For Philly Joe”), lasciando meno spazio ai brani che esibiscono un tempo medio (“Wonderful! Wonderful!” e “Namely You”).
L’esclusione di tempi lenti e ballad si rispecchia nella natura degli assoli di Rollins, di qualità costantemente superlativa. Essi si tuffano con suggestivo impeto nel blues di “Blues For Philly Joe”, percorrono con articolata nonchalance “Wonderful! Wonderful!”, infiammano con giocosa intensità “Tune Up” e solcano con una risolutezza gradevolmente irregolare “Asiatic Raes”.
Come spesso accadeva nei suoi lavori, Rollins sceglie di rielaborare eccentriche composizioni provenienti dal pop colto dei musical di Broadway (“The Surrey With The Fringe On Top” e “Namely You”) o da brani pop degli anni 50 (“Wonderful! Wonderful!”).
“Namely You” e “Wonderful! Wonderful!” passano così da motivetti orecchiabili, ma tutto sommato ordinari, a intelligenti rivisitazioni della loro melodia principale, un tratto distintivo, questo, dell’arte di Sonny Rollins. Per di più, egli punteggia i semplici temi dei due pezzi citati con brevi, ma audaci, incursioni improvvisate, sbalzate inaspettatamente al di fuori dagli schemi melodici sui quali i temi stessi sono costruiti. L’assetto dato a queste due canzoni pop rimarca l’attitudine alla curiosità del sassofonista, sempre pronto a guardarsi attorno per reinterpretare e attualizzare le tendenze musicali di epoche e contesti diversificati.
Un discorso completamente differente va invece imbastito per “Surrey With The Fringe on Top”, anch’essa parte di una colonna sonora di Broadway (dallo show “Oklahoma!” del 1943), ma alla quale Rollins riserva un trattamento estremamente più ambizioso e temerario. La traccia, della durata di sei minuti e trenta secondi, costituisce il punto più alto raggiunto da “Newk’s Time” e viene suonata dal leader accompagnato esclusivamente dalla batteria, in un’affermazione di coraggiosa sperimentazione inedita nel 1957. Lo spazio armonico lasciato vuoto dall’assenza del piano viene riempito dal brillante scintillio del piatto ride di Jones, mentre il contrabbasso è sostituito dagli assidui colpi del tamburo rullante: un’affascinante commistione tra ritmo e inventiva. Nonostante il sassofono sia al centro dell’attenzione, con le sue evoluzioni ingegnose e ininterrottamente stimolanti, il pezzo diventa un palcoscenico innalzato da Rollins per il batterista, che mette in mostra qui una delle performance migliori della propria carriera, nella quale il trascinante pattern percussivo che viene delineato è tanto stabile e scorrevole quanto generatore di entusiasmanti sussulti sonori.
Questa strumentazione scarna, sperimentale e difficoltosa da gestire, ma magistralmente affrontata in “Surrey With The Fringe On Top”, sarà adottata, a distanza di anni, dal jazz d’avanguardia e dal free jazz (John Coltrane, Archie Shepp, Sam Rivers, etc.). L’idea concepita da Rollins per questa traccia immette quindi nell’hard bop nuova linfa creativa, fornendo contemporaneamente materiale utile all’invenzione di nuove forme di jazz. “Surrey With The Fringe On Top”, per di più, contiene una serie di scambi tra sassofono e batteria (dal minuto 3.23 al minuto 5.01), chiamati tecnicamente trade of fours, e ugualmente presenti in altre tre composizioni: “Tune up” (dal minuto 2.17 al minuto 3.05), “Wonderful! Wonderful!” (dal minuto 3.50 al minuto 5.03) e “Blues For Philly Joe” (dal minuto 5.06 al minuto 6.05). Si tratta di una diversificazione introdotta nella sequenza delle improvvisazioni, dove veloci assoli compiuti da due (o tre) strumenti si alternano tra loro in rapida successione (lo spazio occupato, appunto, da quattro battute, sebbene talvolta esso possa variare). In questa configurazione solistica ogni nota conta e ha un peso, essendo molto scarso il tempo a disposizione per disegnare il proprio assolo. Nell’album, Rollins e Jones usano spesso questo diversivo declinandolo splendidamente, inebriandoci con una serrata serie di emozionanti e vorticosi assoli in miniatura ed esaltando così il dinamismo della musica nella sua totalità.
A completare la tracklist sono “Tune Up” (di Miles Davis, già incisa dal trombettista nel ’53), “Asiatic Raes” (di Kenny Dorham, che la registrerà solo due anni dopo con il titolo di “Lotus Blossom”) e “Blues For Philly Joe” (l’unico episodio scritto da Rollins). Le tre tracce illuminano la maestria di Watkins nel rimanere sullo sfondo degli arrangiamenti con ferma discrezione e operosa abilità, soprattutto conducendo frequentemente un walking bass di sicuro effetto. Il contrabbassista utilizza questa tecnica, tipica dell’hard bop, variandone l‘andamento elastico anche per costruire i due fuggevoli e agili assoli suonati nelle battute finali di “Tune Up” e “Blues For Philly Joe”.
In maniera simile, nelle tre composizioni citate, Kelly si fa notare per i movimentati assoli che distende sui tasti del pianoforte con una raffinatezza circondata di esperienza. Se in “Blues For Philly Joe” il blues che guida la sua parte solista viene sdrammatizzato dall’appassionato brio del pianista, in “Tune Up” e “Asiatic Raes” spicca l’utilizzo delle pause e degli spazi tra le battute, subito seguiti da coinvolgenti fraseggi di note dal suono vivace e piacevolmente arrotondato. L’accompagnamento che Watkins e Kelly riescono a tessere arricchisce e dà corpo al suono delle sei tracce fondendosi in esse e colorandole di sfumature quasi impercettibili, ma significative e curate persino nei momenti più animati. Philly Joe Jones predilige qui uno stile incalzante e nello stesso tempo molto immediato, che sostiene perfettamente il sassofono denotando comunque un rilevante grado di estrosa autonomia. La sua intesa con Rollins sfiora in “Newk’s Time” quella già esistente tra il sassofonista e Max Roach, batterista preferito dal leader di queste session in molti album degli anni 50, aggiungendovi però una tonalità più prorompente ed eccitante. Da ricordare l’assolo di Jones in “Asiatic Raes”, durante il quale scrive fitti e frenetici paragrafi con il tamburo rullante e li separa andando a capo con punti messi su timpano e grancassa.
In linea con i dettami stilistici dell’hard bop, il quale nel ’57 si era ormai fermamente attestato come genere di jazz predominante, nell’Lp acquistano una speciale importanza i temi introduttivi e conclusivi dei brani. Quello scritto da Rollins per “Blues For Philly Joe” si distingue per la sua struttura gaia ed elaborata, che torna sui propri passi per poi proseguire con svolte angolose. Un tema musicale che, pur concedendo poco a melodie accattivanti e lineari, tanto da sembrare esso stesso una improvvisazione, esemplifica, a nome di tutto l’album, come l’inclinazione intellettuale del sassofonista si traduca in un idioma istantaneamente comprensibile e avvincente.
In estrema sintesi, “Newk’s Time” non rientra tra i più conosciuti e stimati lavori di Sonny Rollins, pur avvicinandosi ad essi fino a rifletterne da vicino l’immagine. Tuttavia, esso si conquista un posto di prestigio nella sfera dell’hard bop, come anche nel jazz in generale. Da celebrare, in particolare, per la carica innovativa di alcuni arrangiamenti, il disco risulta complessivamente molto bello e gratificante, nonostante esistano testimonianze ancora più vivide (poche) dell’arte di questo grande sassofonista.
06/05/2025