21/11/2010

Arcade Fire

Palau Sant Jordi, Barcellona


La processione di quelle ottomila persone che all'indomani sarebbero state solo un numero sui giornali locali sembrava una miriade di vasi sanguigni che intessevano le pendici della montagna sacra ai barcellonesi. A metà della collina che qui chiamano Montjuïc - il monte dei giudei - nell'ormai lontano 1992 fu costruito il Palau Sant Jordi, palazzetto dello sport che per l'evento notturno assomigliava a un enorme coagulo umano, lucente come la corazza di uno scarabeo illuminata dai fari olimpici.

 

Una volta dentro, un enorme telo nero impedisce la visione dello spazio dell'arena che affonda ai piedi degli accoliti. Un attimo per scendere le scalinate che portano giù fino alla pista: ventre già caldo e colmo di aspettative. Entrano gli Arcade Fire al suono di sedicimila palmi battuti e un boato che fa letteralmente tremare il suolo. Il primo pezzo in scaletta pone la domanda proverbiale: "Ready To Start"? Non ci sono dubbi e una miriade di corpi iniziano a saltare. Il rituale è iniziato. Un primo passo volto indietro: inizia "Neighborhood #2 (Laika)" tratta dal primo - fortunatissimo - disco della formazione canadese, quel "Funeral" che ancora agita i cuori di molti. E fra il pubblico ci sono appartenenti a questa specie. Lacrime a profusione. La biblica "No Cars Go" segue liberando l'energia di tutti: il contatto è stato stabilito con successo.

 

I nostri capiscono subito con che pubblico avranno a che fare per le due ore, mentre saranno sormontati da uno schermo faraonico: una cartolina di un viale cementificato della suburbia statunitense che qualche illuminato pensò di trasformare in cartolina viene illuminato da un'alba multicolore. Al centro della scenografia, su uno schermo di minori dimensioni, si sovrappongono immagini inquiete, cartoline anch'esse, di un paesaggio dall'anima abbandonata. Di colpo una raffica di vento muove delle palme in technicolor: Haïti. Si misura su scala Richter l'impatto emotivo che ha la voce tremolante di Régine Chaissaigne, che si sovrappone al coro che unisce il pubblico. Segue "Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)" forse il pezzo più eighties dell'ultimo disco. E la gente balla davanti a un gruppo che è diventato fluorescente. In fondo, come ha detto Wim Butler introducendo il pezzo, "gli spagnoli sono conosciuti per essere grandi ballerini". Non si sono smentiti; nemmeno la miriade negli anelli superiori del Palau.

 

Così arriva "Modern Man" che continua l'esplorazione dell'ultimo disco, seguita dalla lisergica "Rococo", la cinematografica title track "The Suburbs" e la sua coda "The Suburbs (continued)" che sono bene accolte, ma è ancora il primo disco a fare palpitare i cuori quando arriva "Crown Of Love".

Il secondo capitolo estratto da "Neon Bible" è "Intervention". Per l'occasione, sullo schermo appare un organo colossale, i toni si fanno epici al drive-in spirituale. Scorre "We Used To Wait", unico pezzo in cui il frontman non suona e dunque ottimo momento, per lui, per scendere fra la folla che lo accoglie come un messia postmoderno. È arrivato il momento di sfoggiare i gioielli neri di famiglia: "Neighbornhood #3 (Power Out)" si fonde a "Rebellion (Lies)", in una sequenza in cui il pubblico non risparmia fiato, ancora ignaro della scarica finale che riceverà con "Month Of May" e "Neighbornhood #1 (Tunnels)", ultimo pezzo, per il quale il video sullo sfondo si riempie di scintille azzurre che cadono dolcemente, come per ricordarci di un fuoco magico che si è spento. Ma sotto le ceneri, c'è ancora una fiamma, quella che alimenta il motore degli Arcade Fire: arriva il bis con "Keep The Car Running", terzo ed ultimo pezzo estratto dal secondo disco. Ed è con "Wake Up" che tocca svegliarsi dal sogno: fratelli, andate in pace... Ma con la sensazione di avere assistito a qualcosa di atemporale, un'epifania che, a raccontarla, nessuno ti crederà.

 

Lenta, la processione delle ormai confuse e frastornate migliaia, riprende la sua forma, convenzionata, di molteplici file progressivamente più composte, riportando tutti nella routine dalla quale siamo stati salvati, almeno per una notte.

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