I Thinking Machines sono un trio di Philadelphia dedito a un interessantissimo mix tra la gioventù sonica e le acrobazie emotive (via Neil Young) dei Silkworm, una compagine, quest’ultima, di cui sembrerebbero essere veri e propri adepti tanta è la vicinanza stilistica, a cominciare dalle apoteosi distorte e matematiche di “Love Of Sea”.
“A Complete Record Of Urban Archaeology” è così un disco piacevolissimo e ricco di momenti davvero esaltanti, anche se, per l’appunto, resta un po’ troppo impelagato nel mare magnum della filiazione fin troppo scoperta. Detto questo, il talento e l’ispirazione non latitano, perché se quello di “Waste Of Time” è power-pop muscolare come tanti, sono l’impasto strumentale e la verve esecutiva a fare la differenza, piantandoci un ritornello nel cervello quasi fosse un palo d’acciaio.
D’altro canto, anche le movenze post-punk del basso ci dicono di una band eclettica, capace di pezzi camaleontici e immaginifici (“Urban Archaeologist”), tra rimpalli e disinibizione ostentata (“Guts”), con melodie che prendono il volo da maelstrom geometrici e atonali (“So Long”) o cicatrici che sanguinano blues, come nella lenta e cadenzata “Glacier Face Blues”.
Prendere atto della loro “archeologia” sonora, dunque: come un percorso che fa di necessità virtù, nell’attesa che il bruco diventi farfalla. Ma lo spazio intermedio non è certo asettico, non è per forza di cose svuotato di senso. Trionfanti ed esaltati (“Maze”), ma anche incendiari (“Fire”, “Kamikaze Astronaut”), i tre cercano la sublimazione (che, poi, non è altro che quell’inestinguibile bisogno di trasfigurazione fisico/emotiva che il rock da sempre rincorre) corteggiando una precisa idea di melodia: rabberciata, strozzata in gola, stupefatta dinanzi al suo stesso misterioso erompere dalle viscere (“You Are Not Safe”, un pezzo che mi porterò a lungo nel cuore, lo sento!).
E, quindi, come dire: non hanno ancora ucciso i padri, ma questi ragazzi hanno le palle. Di questi tempi, non è poco.
30/01/2008