Decemberists

The King Is Dead

2011 (Capitol)
folk-rock

Dopo circa cinque anni e almeno un paio d'album trascorsi a inseguire - con risultati alterni e talora discutibili - una declinazione delle loro letterarie narrazioni folk secondo una grandiosità rock dal sapore vintage, anche per i Decemberists è giunto il momento di guardarsi allo specchio e di tornare, parzialmente, sui passi che li avevano condotti dallo status di moderni troubadours in grado di cantare una comédie humaine con una chitarra, una fisarmonica e poco più a sofisticati autori di una magniloquente rock-operadagli incongrui accenti heavy-progressive.

È lo stesso Colin Meloy, carismatico leader della band, a esprimere il bisogno di semplicità nella scrittura e negli arrangiamenti, confermando al contempo la pacifica verità, che troppi continuano a (far finta di) ignorare, ovvero che non è affatto meno difficile creare canzoni schiette e disadorne che una complessa epica musicale: "per quanto gli ultimi dischi siano stati complicati, questo è stato il più difficile da realizzare; fare musica semplice è una vera sfida e questo disco rappresenta un vero e proprio esercizio di moderazione".
Forse anche per mettere in pratica questa sfida e per riscoprire un'ispirazione incontaminata, la band ha deciso di registrare il disco in un contesto più spartano ed essenziale; si è pertanto allontanata di un centinaio di chilometri dalla sua Portland, per recarsi ai piedi del monte Hood, in quello che una volta era un vecchio granaio, dove, in stato di isolamento creativo e al contatto con la natura, ha plasmato le dieci canzoni oggi racchiuse nel suo sesto album, "The King Is Dead".

Il lavoro che ne è risultato non solo è privo delle sovrastrutture che avevano caratterizzato "The Crane Wife" e, soprattutto, "The Hazards Of Love", ma alla sua impostazione musicalmente più scarna corrisponde anche una ritrovata immediatezza espressiva, che attraverso la tematica della ciclicità del tempo e della natura, torna a delineare ballate dal passo svelto e più placide storie da focolare. Non sembra dunque un caso che il brano di apertura dell'album esordisca con le parole "here we come to another turning of the season", emblematiche della volontà della band di voltare pagina, tanto quanto il dialogo tra armonica e batteria, l'interludio d'archi e la conclusiva fanfara sulla quale Meloy riveste i congeniali panni di menestrello stralunato e romantico. Le sue stesse interpretazioni risultano ulteriormente migliorate, assumendo estensioni più ampie rispetto alla consueta tonalità nasale, senza tuttavia abbandonare quell'andamento gradevolmente sbilenco, che così bene torna ad adattarsi alla riacquisita leggiadria dell'orchestrina-Decemberists; smessi i preziosi ma ingombranti abiti da musical degli ultimi dischi, la band torna infatti a divertirsi con i piedi ben saldi per terra, sporcandosi piacevolmente con la polvere di tradizioni gitane (basti vedere la danzante "Rox In The Box") o con quella di battaglie e trincee, nuovamente narrate in "This Is Why We Fight" con il piglio elegiaco dei tempi di "Her Majesty".

Benché tratto saliente di "The King Is Dead" permanga il nuovo abbraccio da parte dei Decemberists a un folk che sa essere scatenato ma anche lieve e floreale (come nei quadretti stagionali "January Hymn" e "June Hymn"), la band di Portland continua a ricondurre con successo il folk nell'alveo dell'indie-rock contemporaneo, rendendo un palese omaggio a band quali Camper Van Beethoven, Byrds e Rem. E davvero non è necessario scoprire tra le note di copertina la partecipazione a tre dei brani da parte di Peter Buck per individuare un collegamento con la band di Athens nello spensierato ossimoro di "Calamity Song" e, soprattutto, nella trascinante limpidezza di "Down By The Water", canzone che non sarebbe stata fuori posto in "Out Of Time". A quest'ultima aggiunge poi caldo spessore la voce dell'altra ospite, la stella del country Gillian Welch, la cui partecipazione ad ampi passi del disco conferma il rinnovato interesse di Colin Meloy e soci per la definizione di un proprio equilibrio tra tradizione narrativa e acutezza tale da assicurare un'agevole e diffusa fruibilità al consolidato gusto "indie" attuale. Insomma, un vero e proprio ritorno al (meglio del) suo passato per una band che dopo alcune prove opache si temeva ormai persa e che invece vede coronata da successo la sua difficile sfida alla semplicità... bentornati, Decemberists!

17/01/2011

Tracklist

  1. Don't Carry It All
  2. Calamity Song
  3. Rise To Me
  4. Rox In The Box
  5. January Hymn
  6. Down By The Water
  7. All Arise!
  8. June Hymn
  9. This Is Why We Fight
  10. Dear Avery

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