Conosciutisi fra i banchi della High School di Chicago, Owen Deutsch (batteria) e Sean Fentress (chitarre) - entrambi impegnati anche nella misconosciuta band hardcore Kaleidoscope - nel 2018 formano il progetto Straw Man Army, con base a Brooklyn. L'estetica musicale è incentrata su una forma di post-punk / post-hardcore senza compromessi, prossima al tipico stile dei Fugazi e delle tante band del circuito Dischord / Touch & Go. La strategia “commerciale” evita qualsiasi forma di promozione e ignora quasi del tutto i canali social, puntando ad allargare la propria nicchia di popolarità attraverso il solo passaparola. Nessun video, nessuna fotografia, informazioni col contagocce, il dubbio che si tratti davvero di soli due musicisti (ad ascoltarli non sembrerebbe…), persino la totale estraneità al mondo Spotify, il loro modo per contestare la formula di riparto introiti applicata dal colosso svedese del music streaming.
Nel 2020 l'esordio "Age Of Exile" contiene dodici tracce moderatamente contundenti, nelle quali la minacciosa aggressività espressa attraverso uno spoken word schierato e politicizzato si stempera di tanto in tanto in frangenti strumentali più “controllati”. E’ il caso del minimalismo per soli chitarra e basso di “Koan”, del mood vagamente jazzy di “Arrival” o del sentimento di resa psicologica trasmesso dalla conclusiva “The End Of Living”. Un approccio lo-fi che attinge tanto alla visione radicale di Ex e Crass, quanto al suono garage-psych dei Thee Oh Sees più appuntiti (li scoverete fra le pieghe di “Amnesia”). I brani scorrono come un romanzo lungo oltre cinquecento anni: lo sbarco dei colonizzatori nel Nuovo Continente, i loro primi contatti con gli inconsapevoli indigeni, le vergognose stragi e violenze loro perpetrate, il conseguente esilio in zone circoscritte, la strisciante violenza che tuttora prosegue. “Age Of Exile” riassume le oppressioni dei nostri tempi, figlie di quelle del passato, focalizzandosi in particolare sulle ingiustizie subite dai nativi americani. Un attivismo concreto: tutti i proventi realizzati con le vendite – sia fisiche che digitali - saranno devoluti alla Red Nation, l’associazione che negli Stati Uniti si batte per i diritti delle famiglie indigene e sostiene la cosiddetta “resistenza anti-coloniale”. Un disco “rumoroso”, che lancia messaggi precisi: costruire un futuro più vivibile e sostenibile, invitando gli americani a studiare e approfondire meglio il territorio nel quale vivono, imparando a rispettare la cultura delle minoranze e ad affrontare le problematiche legate all’ecologia, conservando un minimo di memoria storica, affinché il passato non venga dimenticato. Persino la copertina è studiata per conferire un senso di disagio, con quel bianco e nero che rimanda alle fanzine ciclostilate di una volta.
Nonostante tutto, sul sito della label D4MT il disco va rapidamente sold-out.
Dopo aver composto ed inciso la colonna sonora del lungometraggio sperimentale "Her Majesty's Ship", gli Straw Man Army nel 2022 diffondono “SOS”, confermando la capacità di costruire canzoni in grado di mantenere nell’ascoltatore un senso di pericolo costante, come se qualcosa di irreparabile stesse sempre per accadere.
Tensione espressa attraverso uno spoken word schierato e politicizzato si stempera di tanto in tanto in frangenti più controllati. Severi negli scenari proposti, ma sempre attenti all’importanza della componente ritmica (“Human Kind” si posiziona a due passi dal funk), gli Straw Man Army con “SOS” confermano le proprie inequivocabili attitudini, e nonostante la presenza delle “morbide” “Day 49” e “Beware” fanno di tutto per risultare tutt’altro che ordinari.
Due anni più tardi è la volta di "Earthworks", che scandaglia i temi legati all’ecologia (da qui il titolo dell’album), alla guerra, all’anticapitalismo, alla crisi (ma loro direbbero alla fine) dell’imperialismo americano. Dopo due capitoli dedicati al passato e al presente, con "Earthworks" il duo lancia premonizioni sul futuro, attraverso istantanee di un mondo terrificante dalle quali scaturiscono tre intermezzi strumentali (fra i quali si distingue “Be Gone”) e dieci canzoni nelle quali gli assalti sonici e le improvvise esplosioni ritmiche si intrecciano a frangenti melodici. La tensione resta perennemente alta, anche nei passaggi più controllati, incorporando influenze post-punk, post-rock, kraut, jazz e persino elementi di “americana”, come si percepisce in maniera inequivocabile in “Downstream”, la traccia conclusiva. Altri quattro anni di presidenza Trump non potranno che regalarci un bel mucchio di meravigliosi dischi “against”, proprio come questo.
(Claudio Lancia)
Quarto capitolo per il duo newyorkese, tredici tracce tra post-punk e post-hardcore questa volta centrate sul tema dell'ecologia
Terzo atto del duo newyorchese, un post-punk militante che segue il solco tracciato dai Fugazi
Esordio post-punk senza compromessi, per raccontare le oppressioni subite dai nativi americani