Type O Negative

Type O Negative

L'orchestra della morte

Oscuri, mortiferi e deliranti, i Type 0 Negative hanno dato vita a un'originale fusione di gotico, heavy-metal, hard-rock, pop e progressive. Lasciando almeno un paio di album memorabili

di Francesco Nunziata

Nel 1989, dopo aver militato nei Carnivore, pionieri del cosiddetto trash-core, Peter Steele sprofonda in un'altra delle sue crisi esistenziali. Spesso parla di suicidio, ma non tutti sembrano prenderlo sul serio. Fa lavori saltuari, legge testi di ingegneria o di architettura, dipinge. Nel 1990, Sal Abruscato, un suo grande amico, gli propone di mettere su una band. Vengono così reclutati Kenny Hickey alla chitarra e Josh Silver alle tastiere, mentre Abruscato prende posto dietro i tamburi e Steele imbraccia il suo basso, come ai vecchi tempi. Il nuovo progetto viene ribattezzato Subzero, e, in seguito, Type O Negative (da qui in avanti: TON), dopo che il nostro si era imbattuto in un annuncio pubblicitario in cui un'associazione offriva un buon compenso per un tipo particolare di sangue: O Negativo.

Firmato un contratto con la Roadrunner, il quartetto registra in appena sei settimane il suo debutto: Slow, Deep And Hard. Uscito in piena esplosione grunge (1991), l'album sovrasta per drammaticità ed efferatezza qualsiasi altra cosa pubblicata in quel periodo. Non solo: negli annali del rock, sarà ricordato come una delle pagine più nere e deliranti di sempre. Non c'è soltanto la devastante forza dell'heavy-metal o la cupa melodrammaticità del gothic-rock a mantenere la temperatura pericolosamente alta; quello che rende i TON una band unica è il sound funereo, a tratti quasi irreale; un sound che è, al tempo stesso, anche volutamente sperimentale.
Tutti questi fattori, uniti allo humour nero del leader, ne fanno, senza ombra di dubbio, il più grande e il più creativo album di heavy-metal di sempre, ma anche uno dei vertici della musica rock tutta.

Slow, Deep And Hard suona un po' come i Black Sabbath che rifanno i Joy Division. Ingredienti decisivi, il lavoro raffinato e mai sopra le righe di Silver alle tastiere, e il basso di Steele, elaborato in maniera tale da essere definito dalla stessa band come una "chitarra baritono". "Unsuccessfully Coping With The Natural Beauty Of Infidelity" si apre con un sibilo in crescendo, preludio allo speed metal di "Anorganic Transmutogenesis", prima delle tre parti in cui si divide il pezzo. La voce di Steele tuona disgustata al ricordo di un amore tormentato e infelice; improvvisamente, questo primo fotogramma si eclissa dietro un soffuso intermezzo per gemiti lascivi e chitarra acustica ("Coitus Interruptus"), prima che un urlo spaventoso sposti il baricentro verso la parte conclusiva, quella "I Know You're Fucking Someone Else" che viaggia lungo le coordinate di una melodia tastieristica fortemente "progressiva". Inframmezzato da insulti di ogni tipo alla donna che lo ha tradito ("slut", "whore", "cunt"), quest'ultimo movimento chiude in un clima ebbro e maestoso un pezzo fortemente programmatico per quanto concerne la macrostruttura del disco. Infatti, sul modello di questa prima suite, i TON costruiranno, più o meno fedelmente, tutti gli altri brani, ad eccezione di "The Misenterpretation Of Silence And Its Disastrous Consequences", che è quasi un omaggio a Cage con il suo minuto di silenzio assoluto; e di "Glass Walls Of Limbo (Dance Mix)", uno strumentale atrocemente gotico, con cori di fantasmi e flagellazioni di peccatori; sullo sfondo, l'ultima eredità della civiltà umana: un'eco terribile e straziante di dolore eterno.
Quello che resta del disco, se lo dividono "Der Untermensch", aperta da spirali elettroniche e battiti astratti, presto catturati dal riff torrenziale della sei corde, che scivola perentoria in un martellante hardcore, mantenendosi in un bagliore urticante di pseudo-glissando abrasivi e sconvolti. La volata minacciosa di "Socioparasite" innesca "Waste Of Life", che si riallaccia alla parte iniziale, prima di lanciare un'altra scorribanda tra le strade di New York, con Steele letteralmente su di giri, la chitarra impazzita e le tastiere perfettamente a loro agio nel puntellare la cadenza con tocchi subliminali e asciutti. Questo contro-inno dei relitti sociali sarà uno dei bersagli principali delle accuse di razzismo rivolte alla band newyorkese, anche se quello di Steele più che razzismo sembra piuttosto essere il grido di chi conosce i bassifondi della vita, ma non sa come uscirne. Così, la concretezza del dolore finisce per scavare abissi tra gli uomini, quando invece dovrebbe riavvicinarli.
Solo un senso tragico dell'esistenza poteva spingere questo personaggio tanto scomodo quanto provocatore a dichiarare: "Qualunque cosa fai, muori.". E ancora: "Odio tutte le razze in modo equo, perché è con l'umanità nel suo insieme che ce l'ho".
Uno stridente rumore di metallo e un turbine sintetico aprono "Xero Tolerance", il cui primo tassello, "Type Personalità Disorder", è un altro dei loro truci speed-metal, con tanto di assolo al fulmicotone di Hickey. Il brano descrive un omicidio dal punto di vista dell'assassino, ma lo fa con quell'ironia apocalittica e malsana che contraddistingue ogni loro traccia (intervistato a proposito delle sue liriche, Steele confessò che l'inserimento di elementi ironici nei suoi testi rappresentava una sfida, oltre che un fattore di divertimento; non solo: aveva anche un carattere terapeutico). Un organo solenne, che fa il verso a Bach, crea un maestoso effetto di suspence, preludio alla descrizione effettiva dell'omicidio in "Kill You Tonight", una travolgente cavalcata infestata da tastiere rutilanti e cori goliardici. Solo "Love You To Death" riesce a scaricare la tensione fin qui accumulata con un dolcissimo arpeggio di chitarra acustica.
Ancora lente peregrinazioni chitarristiche disegnano, nell'impalpabile diffondersi di glaciali sospiri, "The Truth", l'ouverture di "Prelude To Agony", sicuramente il brano più teatrale del disco. I temi sono quelli usuali: dalla misoginia più radicale fino al sesso vissuto in maniera oltraggiosa e perversa. Dopo un poderoso pow-wow, con tanto di voce ultraterrena ed esagitate progressioni trash-metal ("God Love Fire Woman Death"), il brano rallenta improvvisamente, indugiando in una sorta di slow-core per dannati, e poi proseguendo con rintocchi di campane che si perdono in lontananza in un paesaggio autunnale, mentre folate di vento delineano i confini di uno spazio desolatamente vuoto. Ancora un repentino cambio di tempo e la bussola dei generi torna ad impazzire, aprendo il sipario su "Jackhammerape", altra epilessi furibonda e senza sosta, spinta, nel delirio finale, tra inenarrabili catastrofi psichiche e degradazioni sessuali da manicomio criminale.
In un tripudio selvaggio di geyser chitarristici, si ode il rumore del martello pneumatico col quale lo stupratore si accanisce contro la sua vittima. Le urla di quest'ultima fanno precipitare Steele nel vortice dei suoi buchi neri mentali: sul fondo, l'inferno. Pochi brani possono vantare, in tutta la storia del rock, un effetto così drammaticamente realista. L'heavy-metal è diventato il cabaret espressionista degli abissi insondabili dell'uomo.
Ultimo brano di questa apoteosi dell'odio è "Gravitational Constant: G="6.67x10-8cm3gm-1sec-2"" (!), subito catapultato in un rituale thrash dalle forti ascendenze melodiche, con Steele che declama l'inspiegabilità dell'esistenza ("Unjustifiable Existence"), mentre progressivamente si scivola in un estatico bagliore onirico ("Acceleration - due to gravity"), in una "No man's land" dello spirito, dove a vacillare sono tutti i nostri orpelli razionalistici. Steele sta operando la messinscena delle sue inquietudini esistenziali, e in "Antimatter: Electromechanical Psychedelicosis" lo possiamo ascoltare mentre urla il suo strazio tra rumori indecifrabili. Ormai, il suo vagare è prossimo alla meta. Non gli resta altro che intonare il suo "Requiem For A Souless Man", e confessarsi tutto il dolore con una risolutezza prossima al parossismo. Alla fine di questo viaggio maledetto tra i labirinti della psiche umana non può esserci, secondo Steele, nient'altro che il suicidio, l'unica vera espressione totale dell'individuo (".suicide is self expression."). Su queste parole, si innalza un coro epico, conferendo al tutto un valore sacrale. Perché, in fondo, ciò che si cerca nel gesto estremo, è semplicemente un barlume di divinità.

Slow, Deep And Hard sembra sostenere che sia l'inattingibilità del divino a rendere insostenibile e aberrante il cammino dell'uomo; questa ricerca interminabile scuote costantemente il suo equilibrio spirituale, tanto che il voler possedere l'altro - il cui momento supremo è il sentimento dell'Amore - diventa, in ultima istanza- un voler annientare l'altro. Ad ogni modo, proprio in "Gravitational Constant", Steele dimostra di essere conscio dei suoi problemi: egli dichiara di non avere più amore da dare , e, di riflesso, di non avere ragioni per vivere. Per quanto egli possa tentare soluzioni, l'unica via d'uscita da questo vicolo cieco gli sembra il suicidio; ma intendere quest'ultimo come la più alta forma d'espressione dell'uomo, significa voler sfidare proprio quella divinità che non si riesce a scovare.
Da un punto di vista compositivo, la struttura in più movimenti dei brani è funzionale alla rappresentazione di questo macabro rituale di autodistruzione, ponendo in primo piano un insieme di "segni musicali" che rimandano al caos delle moderne metropoli e di quanti abitano le loro zone dimenticate.

Il seme di questa apoteosi dell'odio e dell'oltraggio è rintracciabile già nei primi due dischi dei Carnivore. Soprattutto nell'album omonimo del 1986, è già evidente l'attenzione per lo squallore urbano e per le tematiche nichiliste. Inoltre, da un punto di vista strettamente musicale, è già in atto quella fusione apocalittica e vertiginosa tra thrash-metal, hardcore, doom e gotico, un ibrido già allora denominato dagli stessi membri della band come "post-nuclear metal". Tracce come "Legion Of Doom" o "World Wars III & IV" non sono altro che anticipazioni (magari ancora più radicali) di quanto avrebbero poi fatto i TON.

Come era prevedibile, non appena pubblicato, Slow, Deep And Hard scatena critiche furibonde. Da più parti giungono accuse di sessismo, misoginia e, addirittura, di nazi-fascismo. Ma a nessuno viene in mente che, molto probabilmente, Steele si sta facendo beffe di tutti, anche di se stesso. Ad ogni modo, queste accuse, pur lasciando il tempo che trovano, non permettono alla band di avere un consistente riscontro di pubblico.

Così, cercando di eludere le chiacchiere della stampa, i nostri decidono di registrare un album dal vivo, anche se, in realtà, quello che ne esce è sostanzialmente la registrazione di pezzi eseguiti in studio e catturati con un semplice microfono. L'album si intitola The Origin Of The Fecese vede la luce nel 1992. Inizialmente, la copertina doveva ritrarre il primo piano dell'ano (!!!) di Steele, ma poi non se ne fece niente. Raccogliendo in gran parte materiale tratto da Slow, Deep And Hard, l'album è, tutto sommato, prescindibile, pur contenendo gustose riletture dell'hendrixiana "Hey Joe"( reintitolata "Hey Pete") e di "Paranoid" dei Black Sabbath.

Tempo pochi mesi, ed ecco arrivare Bloody Kisses (1993), in cui la componente gotica, diventata preminente, avvolge nel suo turbine malinconico gran parte del disco. "Christian Woman", uno dei brani più famosi, viene introdotta proprio da un etereo tappeto di tastiere gotiche, mentre la voce di Steele s'insinua calda e sensuale. L'aspetto malinconico e arcano viene accentuato da un intermezzo di chitarra acustica: sullo sfondo, rumori d'acqua e cinguettii di uccelli. Il canto è dolcissimo e Silver dipana lacrime su lacrime. L'assolo di Hickey aggiunge fuoco dentro le viscere. Ma, tenendo fede al loro stile imprevedibile, l'ultima parte ritorna sui passi di un nervoso heavy-metal.
"Black No.1", altro grande loro successo, continua ad assemblare scatti improvvisi e lande desolate, con una meravigliosa fuga di tastiere in caduta libera (anche se appena accennata) e un finale che si dilegua progressivamente. "Kill All The White People" riporta alla luce le progressioni hardcore del primo album ( con la solita carica eversiva e sperimentale), mentre "Summer Breeze", cover di un brano di Seals & Crofts', ha dalla sua un prodigioso equilibrio tra chitarra, voce e tastiere. "Set Me On Fire", che segue senza soluzione di continuità, mostra il lato più pop della band, con tanto di ritornello e un delizioso lavoro di Silver, che si divide tra organo e diavolerie sintetiche assortite.
Con "We Hate Everyone", l'ex-Carnivore risponde a tutte le accuse rivoltegli dopo la pubblicazione del primo album. I TON si servono della solita struttura in più parti; ma, a dire il vero, in questo - come in molti altri casi- si dovrebbe parlare più propriamente di microstrutture. Un organo maestoso dà il via alla title-track, vicinissima al clima apocalittico di Slow, Deep And Hard. L'incedere lento e sofferto è perfetto per la voce tenebrosa di uno Steele raramente così convincente. Non è un caso, infatti, che proprio grazie a brani come questo, il Nostro iniziò a ricevere critiche positive sulle sue capacità canore; le grida e le imprecazioni del primo album hanno lasciato il posto a "terribili introspezioni vocali".
In "Too Late: Frozen", gli elementi caratteristici dell'heavy-metal vengono fatti collidere con frammenti di forma-canzone canonica. La sezione centrale, tuttavia, dissolve il clima svagato dell'inizio, impigliandosi in un disperato acquerello dalle tinte gotiche, con la voce filtrata di Steele che crepita disperata e irriconoscibile. Dal canto suo "Blood & Fire" si fregia di un'atmosfera minacciosamente sensuale, oltre che di un magistrale lavoro di Hickey alla chitarra.
In territorio, diciamo così, "avanguardistico" si situano brani quali l'iniziale "Machine Screw" (orgasmo femminile e stridori metallici), "Fay Wray Come Out And Play" (recitato horror di Steele, tamboura, urla e un gelido scrosciare di pioggia), "3.O.I.F." (voci e spazi dilatati nel vuoto). In chiusura, invece, giunge la lenta vertigine psichedelica di "Can't Lose You", nella quale fa capolino anche il sitar di Paul Bento.

Bloody Kisses è diventato recentemente disco di platino; tuttavia, la bellezza scomposta e dissoluta del capolavoro Slow, Deep And Hard non è stata scalfita da queste, pur bellissime, quattordici tracce.
Terminate le registrazioni, Steele iniziò a nutrire seri dubbi sull'opportunità di proseguire il cammino con i TON. La cosa non andò a genio ad Abruscato che, infatti, decise di lasciare la band per entrare nei Life Of Agony. Una volta superata questa fase di stallo, John Kelly fu reclutato come nuovo batterista.

Il tour di Bloody Kisses durò due anni; poi, spentisi i riflettori, la band si ritirò nuovamente negli studi di Brooklin, iniziando a lavorare ai brani che sarebbero finiti sul nuovo album, October Rust (1996). E' questo l'album dove, secondo le parole dello stesso Steele, "i Beatles incontrano i Black Sabbath" (!). E infatti, accantonati totalmente gli psicodrammi post-nucleari degli esordi, il nuovo lavoro si presenta come la naturale evoluzione di Bloody Kisses, eliminando del tutto gli elementi hardcore e i proclami politici ed operando, di contro, una sorta di "rallentamento" dei brani. Ma da un punto di vista prettamente artistico, l'opera, pur avendo dei momenti davvero eccezionali, non riesce nemmeno lontanamente a raggiungere le vette (o meglio: gli abissi) dell'esordio, né tantomeno i gioielli goth-metal del suo degno successore.
Ad ogni modo, sono da segnalare "Love You To Death" (con le tastiere di Silver che sembrano evocare l'odore dell'autunno e il suo caldo tepore), "Die With Me" (che inizia con una vena acustica, per poi diventare man mano sempre più heavy e progressiva), "In Praise Of Bacchus" (ipnotica e sontuosa), "Burnt Flowers Fallen" (il cui riff sembra progressivamente cementarsi nel cervello dell'ascoltatore) e la cover di "Cinnamon Girl" (un omaggio a Neil Young).
Non si tratta, insomma, di un lavoro eccezionale, ma di certo October Rust è un tassello imprescindibile per chi voglia capire appieno l'architettura sonora dei TON. E, poi, per quanto questo possa interessare, Steele sostiene, ancora oggi, che questo è l'album che gli è riuscito meglio, soprattutto in termini di produzione. 

Segue World Coming Down, uscito nel 1999. Si tratta di un'opera dove la componente "negativa" ha raggiunto dei livelli preoccupanti. I brani si susseguono in un'atmosfera rassegnata; i membri della band concorrono, ognuno per proprio conto, nel cesellare scenografie agghiaccianti di un mondo che, per l'appunto, sta precipitando verso la dissoluzione. Si torna a respirare il clima caotico di Slow, Deep And Hard, con le liriche e gli arrangiamenti che sembrano meglio focalizzati. La novità fondamentale, comunque, è rappresentata dal ruolo preminente che hanno assunto le tastiere di Silver: i suoi "soundscape" lancinanti sono il vero baricentro delle traiettorie musicali di World Coming Down. Non è un caso, infatti, che la musica si sia fatta più "atmosferica", a tratti quasi inafferrabile.
Steele, dopo alcuni problemi di droga e gravi lutti in famiglia, si ritrova a meditare, con le sue liriche, sulla situazione del mondo alla fine del millennio. Di riflesso, anche il mondo del discusso frontman sta crollando: non ci sono più illusioni all'orizzonte. Non c'è più nulla.
Anche l'ironia che serpeggiava in brani quali, ad esempio, "We Hate Everyone" o in "Kill All The White People" (entrambe su Bloody Kisses), è del tutto svanita, lasciando il posto a una cupa e rassegnata visione dell'esistenza. Tanto cupa che, forse, anche il suicidio ha perso la sua forza ribelle. E la musica, con la sua lentezza esasperata non fa altro che riflettere questo stato di cose. I brani, però, finiscono per svanire spesso senza lasciare traccia, a causa di uno sviluppo drammatico quasi nullo. I riff pesanti di Hickey, debitori di quelli dei Black Sabbath, si trascinano quasi ininterrottamente verso la fine. Ma, forse, anche questo è un segnale di rassegnazione.
Tra i brani, vanno segnalati "White Slavery" (un pezzo autodistruttivo, con solenni scenografie tastieristiche); "Everyone I Love Is Dead" (caratterizzato da un ritornello molto orecchiabile); "Who Will Save The Sane" (ancora un "lento", ma con un ottimo intermezzo pianistico); "Creepy Green Light" (introdotta dal basso cupo di Steele e divisa in due parti da un break di organo); "Everything Dies" (con un riff molto pesante a preparare il terreno per una melodia tristissima, sostenuta dal lavoro di pianoforte di Silver e dalla voce calda e profonda di Steele). In chiusura, troviamo "Day Tripper", un medley di cover dei Beatles, una delle band più amate dai TON (!).

A quattro anni dall’ultimo World Coming Down, che Steele definì senza troppi giri di parole "il peggior album della nostra carriera" (sembra però che lo disse più per cattivi ricordi personali legati alla genesi di quel disco che per la musica in esso contenuta), esce Life Is Killing Me, che non fa altro che continuare lungo la strada del progressivo annullamento di quella brutalità selvaggia che contraddistinse i loro esordi, a favore di una sempre maggiore attenzione alla costruzione delle melodie, al lavoro certosino sui suoni e sugli arrangiamenti.
I modelli principali sono comunque sempre quelli: Black Sabbath da un lato e Beatles dall’altro. A dispetto di quanto si possa pensare, infatti, Peter Steele non ha mai fatto mistero del suo amore per i Beatles e di quanto il quartetto di Liverpool fosse da sempre per lui una grande fonte di ispirazione.
Il formato delle canzoni resta più o meno sempre lo stesso: brani lunghi e distesi su progressioni eleganti, ma anche molto poco incisive, nei quali prevalgono ora i toni apocalittici della chitarra ("Gimme That"), ora il versante melodico ("Electrocute"): ma tutto si sviluppa sempre piuttosto faticosamente, senza coinvolgere mai più di tanto. È un grande limite per il disco e per la musica dei Type O Negative, che ancora oggi riesce a dare il meglio di sé non nelle lunghe, lente, articolate digressioni "prog-metal" alla Tool.
Insomma, la forza del gruppo si sente nel pieno delle sue potenzialità in un brano come l’irresistibile, micidiale "I Don’t Wanna Be Me", che termina addirittura in una coda "ambient", introduzione alla citazionistica "Less Than Zero", che su un martellante lavoro di chitarra e batteria scodella melodie prese alla lettera dai Beatles "indianeggianti" di brani come "Norwegian Wood" e "Inner Light", salvo poi sciogliersi in un drammatico ritornello.
Ancor più bizzarro è l’incalzante hardcore di "I Like Goils", potenzialmente esplosivo ma continuamente frenato dai disturbi elettronici di Silver e dal canto di Steele, che si innalza in straniati ululati e coretti pop. "Angry Inch" è un altro demoniaco trash-metal, ma non mostra troppa convinzione da parte della band. I restanti brani sono invece lunghe e cadenzate progressioni sempre molto eleganti, lineari e orecchiabili: il formato della lunga suite che funzionava egregiamente nei primi dischi ormai però non ha più ragione di esistere, senza la terrificante rabbia che sorreggeva e alimentava quei lavori.
C’è però ancora la capacità di azzeccare un capolavoro come "Anesthesia", brano che finalmente getta la maschera dell’eccessivo manierismo formale e si lancia in un'autentica apoteosi "gotica", un abisso di paura e rabbia degna dei capolavori del loro secondo disco "Bloody Kisses".

I Type O Negative suscitano ammirazione a ogni loro uscita, perché nonostante il passare degli anni e delle mode, restano fedeli alla loro identità, al loro standard, anche se ormai è quasi del tutto scaduto in stereotipo. E anche Dead Again (2007) non si discosta dal copione. Tuttavia, un'intro come quella della title track è un tuffo al cuore. Anche "Tripping a Blind Man" è lì, solca quel mare apparentemente placido, costeggiando lidi pomposi, ma ancora col giusto contegno, anche quando i cambi di tempo sembrano forzati. Ma l'album è anche lo stereotipo definitivo dello scibile musicale Steele-iano. Prendete "The Profits Of Doom": dentro c'è di tutto, come un piccolo bignami a uso e consumo degli sbadati che si sono persi le puntate precedenti. Sfilano i Carnivore, troneggiano echi "lenti, profondi e duri", ci si scambia "baci di sangue", risplendono "ruggini d'Ottobre", e via di questo passo. Passionale, la verve di "September Sun", tutt'altro che malaccia, ma maledettamente stiracchiata. E, poi, quell'aprirsi operistico, quel solo stridulo, quell'andare alla deriva, la meta ormai persa.
Sono brani che giocano con un citazionismo fin troppo scoperto ("Halloween in Heaven", con cameo vocale di Tara VanFlower dei Lycia; "These Three Things", che non disdegna, comunque, qualche passaggio coinvolgente). Strutture "erratiche", come da sempre ci hanno abituati.
Resta il fatto che, arrivati a questo punto, siamo stanchi: "She Burned Me Down", "Some Stupid Tomorrow", "An Ode to Locksmiths" vanno avanti per la loro strada, accanto il fantasma eterno dei Black Sabbath, fino a "Hail and Farewell to Britain", la cui coda viene risucchiata dal rumore di aerei e di bombardamenti.
Un finale degno per un personaggio controverso ma, a suo modo, "adorabile" come Peter Steele. Peccato solo non faccia più dischi di spessore.

Il 14 aprile 2010, come un fulmine a ciel sereno, arrivò la notizia della morte di Peter Steele, causata da un aneurisma aortico. Aveva solo 48 anni. Senza di lui, gli altri membri della band non se la sentirono di andare avanti: la morte di Steele significò, insomma, la fine dei Type O Negative.



Contributi di Mauro Roma ("Life Is Killing Me")

Type O Negative

Discografia

Slow, Deep And Hard (1991)
Bloody Kisses (1993)
October Rust (1996)
World Coming Down (1999)
The Least Worst of Type O Negative (2000)
Life Is Killing Me (Roadrunner, 2003)
Dead Again (Spv, 2007)
Pietra miliare
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