Prima della pubblicazione del suo nuovo splendido album “Silently Held”, incontro su Zoom Chantal Acda. Abbiamo parlato delle sessioni di registrazione in studio, dell’importanza dei silenzi in musica e della profonda connessione con la natura che traspare delle sue nuove canzoni. Mentre dialoghiamo, scopriamo di avere gli stessi gusti musicali: Sigur Rós, Adrianne Lenker, Bon Iver e soprattutto Phoebe Bridgers. E, a quanto pare, la cantautrice belga è probabilmente ancora più fissata di me con la musica delle boygenius…
Come si sono svolte le sessioni di registrazione per il tuo nuovo disco “Silently Held”?
Inizialmente volevo registrare le canzoni in Belgio con la mia live band. Adoro la mia band, ma quando abbiamo iniziato a provare le canzoni c’era forse troppa energia. E queste canzoni avevano bisogno di qualcosa d’altro, di maggiore fragilità. Ho quindi pensato di lavorare con Bill Frisell, con cui avevo già collaborato in passato e con cui mi sento molto safe. Lui vive a New York e siamo andati a lavorare nello studio di Shahzad Ismaily che era libero in quei giorni. Nello studio c’erano anche Eric Thielemans e Thomas Morgan.
Sono rimasto stupito quando ho scoperto che “Friends Parade” e altri brani sono stati registrati in one take!
Prima di andare in studio avevo deciso di provare a catturare qualcosa di reale, viscerale, imperfetto. Non ho portato nemmeno degli spartiti con gli accordi. Quando abbiamo iniziato a lavorare ho detto agli altri che avremmo ascoltato le demo un paio di volte e poi avremmo suonato e registrato in one take. Non sapevamo che forma avrebbero assunto le canzoni; poi tutto è successo, quasi come per magia. È stata una di quelle cose che ti rendi conto non sarebbe più potuta riaccadere nello stesso modo.
Come è stato lavorare con così tante persone nello studio? Per “Saturday Moon”, le molte collaborazioni si erano svolte a distanza.
Per me è stata probabilmente la cosa più toccante che abbia mai fatto, non solo dal punto di vista musicale. Le canzoni sono così oneste da aver dato l’impressione che il mio cuore fosse in mezzo a noi. Si era creata davvero una forte connessione fra di noi, qualcosa che non avremmo mai potuto instaurare se non avessimo registrato le canzoni suonando nella stessa stanza. È stato veramente bello!
Volevi fin dall’inizio dare un’impronta jazzy agli arrangiamenti o hanno preso forma solamente suonando con gli altri a New York?
Non concepisco la mia musica con dei generi musicali. Cerco piuttosto di collaborare con persone che riescono a connettersi con le sensazioni di un album. Non avevo pianificato di fare un disco più jazzato, ma, ovviamente, se lavori con Bill Frisell avrai un risultato diverso rispetto a una collaborazione con Alan dei Low.
L’album è davvero molto coeso: sembra un’unica oasi fatta da suoni pacifici e meditativi ed è sempre molto toccante! Se lo ascolti dall’inizio alla fine è come un trip!
Questo perché quando registri in due giorni le basi di nove canzoni, sei in una sorta di trip. Per noi, almeno, lo è stato!
Nell’album mi sembra che il silenzio giochi un ruolo importante. Che cosa rappresenta il silenzio evocato in “Silently Held”?
Nella musica in generale il silenzio è importante per me, perché mi permette di ascoltare e di percepire lo spazio in cui mi trovo. Nei silenzi di “Silently Held” si trovano numerosi piccoli dettagli, una maggiore stratificazione, che Phill Brown ha mantenuto nel mixing. Volevo che questo spazio che abbiamo catturato nelle registrazioni in studio rimanesse nelle canzoni in modo tale da poter invitare a entrarci tutte le persone che avrebbero ascoltato il disco.
Mi piace molto un’immagine nel testo della prima canzone dove canti di un ballo in silenzio. Danzi spesso in silenzio?
Qualche volta lo faccio. Mi ricordo di una volta in cui ero in tour in Italia. Ci trovavamo in un posto vicino a un bosco, stavamo guardando gli alberi e a un certo punto io e Eric ci siamo messi a ballare. È stato strano, ma ti consiglio di provare una volta!
In “Seafoam” mi sembra che tu riesca a immergerti completamente nella natura che ti circonda e che tu ti stia trasformando in uno degli uccelli di cui canti.
Non ci avevo mai pensato, ma ho sempre cercato la connessione con la natura e gli animali. Probabilmente hai ragione!
Mi ha ricordato molto “Pūwawau”: anche lì mostravi una profonda connessione con il circostante.
Sì, quel disco era molto connesso con il mondo naturale. Di solito scrivo canzoni dopo aver trascorso una giornata con i miei cavalli o dopo una passeggiata nella natura con il mio cane; quindi, è normale che le mie riflessioni stringano una forte connessione con la natura.
Come mai hai scelto di realizzare una cover di “I Can’t Make You Love Me” di Bonnie Raitt?
Quando stavo scrivendo il disco, l’ho ascoltata molto e mi sono resa conto di voler realizzare una cover, anche se non è una cosa che faccio solitamente. Ovviamente si tratta di una love song, ma per me c’è molto di più. La versione originale è bellissima ed ero un po’ in soggezione. Però, e questo è abbastanza divertente, quando abbiamo fatto sentire la demo a Bill e Thomas, loro hanno pensato si trattasse di una mia canzone e non volevano credere che fosse una cover!
Effettivamente l’hai fatta completamente tua. Peraltro, si amalgama bene con tutto il resto del disco: è come se fosse una tappa necessaria in questo lungo viaggio che è “Silently Held”. Il video per la canzone invece l’avete girato in Islanda, giusto?
Sì, quella spiaggia è uno dei miei posti del cuore. Ma in generale l’Islanda è speciale per me.
Ho letto che ti piace la musica delle boygenius e di Phoebe Bridgers! Come ti rapporti con questa nuova scena cantautorale statunitense?
Sì, adoro Phoebe e le boygenius. C’è stato un periodo in cui ascoltavo solo la loro musica per tre, quattro ore al giorno, e non sto esagerando! In generale, mi piace molto questa scena, perché trovo che combini dolcezza e cruda visceralità e canti di un vasto spettro di emozioni.
(02/06/2024)
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Comunicare l'ineffabile di Daniel Moor In occasione della pubblicazione del suo ultimo album, “Saturday Moon”, abbiamo contattato Chantal Acda per porle alcune domande relative alla realizzazione delle nuove canzoni e del grandioso “Pūwawau” del 2019. Abbiamo così discusso di alcune tematiche riscontrabili, come un leitmotiv, nel suo intero canzoniere e, tra le altre cose, la cantautrice ci ha raccontato come è nata la collaborazione con Mimi Parker e Alan Sparhawk dei leggendari Low… Ciao Chantal, come stai? Sto bene! Anche se sono impaziente di poter suonare nuovamente live. Mi manca tantissimo! Spero che anche tu stia bene! Hai registrato le canzoni del tuo nuovo album “Saturday Moon” da sola in casa tua e mentre ci lavoravi hai iniziato a collaborare con molti musicisti e musiciste. Come è stato scrivere con altre persone durante la pandemia, essere insieme e soli allo stesso tempo, distanti ma sempre capaci di comunicare gli uni con gli altri? Non è stato troppo strano per me. Penso a ciò in una maniera diciamo più spirituale. Le persone con cui collaboro, con cui mi sento davvero connessa, sono sempre presenti con me, anche quando vivono in un’altra parte del mondo. Ci siamo dovuti adattare, ovviamente, ma in realtà non è stato così innaturale. Mi sento davvero fortunata per aver conosciuto queste persone. Le nuove canzoni toccano temi come l’assenza e la distanza, la memoria e la rimembranza. Mi sembra esserci una forte astrazione dalla realtà fisica. Ci ritroviamo in una sorta di spazio mentale, in un luogo profondo in noi stessi. Pensi che questo tentativo molto coraggioso di rappresentare ciò che è assente sia parzialmente dovuto all’esperienza del lockdown? O si tratta di pensieri che avevi già in mente? Li ho sempre in mente. Penso fin da quando ero una bambina. Mi sono sempre sentita connessa con ciò che non possiamo esprimere con le parole, le cose che non possiamo spiegare. E mi sento sempre molto presente quando faccio della musica. Non si tratta più di me. Sto trasmettendo anche qualcosa d’altro. Mi dà uno strano senso di libertà. Questo mondo è così focalizzato sull’ego che è liberatorio poter allontanarcisi e creare uno spazio comune. Quando faccio della musica, includo sempre l’ascoltatore e l’ascoltatrice; sono presenti nel momento della creazione. Non si tratta di me. Si tratta di noi. E credo davvero che non ci sia abbastanza “noi” nel mondo che ci circonda. Ciononostante, parole e musica possono avvicinarci e connettere le nostre menti e i nostri animi anche quando siamo distanti e separati. Credo che questa sia un’idea che ti sta molto a cuore e che si può ritrovare anche in altri tuoi lavori, penso ad esempio a “Pūwawau”. È vero? Verissimo! Essere significa tutto. Ed è sempre presente quando faccio qualcosa. Scrivo in modo molto istintivo e i miei istinti sembrano avermi sempre spinto in quella direzione. Mi capita davvero in maniera non intenzionale. Per la canzone “Disappear” hai collaborato con Mimi Parker e Alan Sparhawk dei Low. Come è stato scrivere della musica con loro? Puoi dirci qualcosa di più riguardo a questa canzone? È stato strano e bellissimo allo stesso tempo. Sono una grandissima fan dei Low sin dal 1996. Abbiamo fatto un tour insieme nel 2012, durante il quale ho capito perfettamente perché li amassi così tanto e perché mi sentissi così tanto legata a loro. Portano la loro musica ben oltre il nostro “mondo delle parole”. E possiedono un’intensità incredibile. Siamo rimasti in contatto e avevo detto loro che stavo scrivendo delle nuove canzoni. Gliene ho inviate alcune, così, per divertimento, e prima che potessi realizzare cosa stesse succedendo le ho ricevute indietro con l’aggiunta dei loro file. Devo ammettere che ho pianto un po’. È stato un po’ come la sensazione che si prova quando si torna finalmente a casa. Tutti noi amiamo la musica dei Low. Qual è il loro album che più preferisci? Sono una fonte di ispirazione per te? Mhmm, è difficile scegliere. Li adoro tutti. Okay, proviamoci! “Secret Name” e “Double Negative”. Sono due dischi molto diversi. Ho passato molto tempo ad ascoltare la loro musica e perciò in qualche modo ciò confluisce nella mia. Come ho detto prima, amo la loro intensità, la speranza e la purezza che traspare dalle loro canzoni. E anche il fatto che facciano sempre le loro cose. Sento che “Conflict Of Minds”, “Disappear” e “Time Frames” sono in un certo senso correlate, non solo per il loro mood più dark, ma anche perché ci si ritrova in questo spazio mentale molto astratto e in qualche modo il mondo che ci circonda perde la sua dimensione fisica e diviene più indefinito. Tu ci vedi qualche collegamento tra questi brani? Solo dopo. Mi perdo in me stessa quando scrivo. Non ho idea di cosa succeda fino a mesi dopo. Mi fa ridere a volte questa cosa. Per me “Conflict Of Minds” però non è molto correlata con le altre due. È una canzone che ho scritto e cantato contemporaneamente: la linea vocale che si sente nel brano è quella della prima registrazione. È venuta fuori così. Mi ha trasportato via con sé e ho pianto; mi ci è voluto un po’ di tempo per capire cosa stessi provando. Ma sapevo che si trattava di un’emozione molto, molto forte. Per questo non ho voluto rifare le parti vocali. Era con il piano ma suonava troppo pesante e Borgar ha così scritto la parte di chitarra che accompagna il mio canto. Ha fatto davvero un ottimo lavoro. Ho trovato la copertina di “Saturday Moon” molto interessante e particolare. Qual è l’idea che si cela dietro? Avevo visto il lavoro di questo artista già anni fa e mi era rimasto impresso. Rispecchia molto come mi capita spesso di sentirmi. Un po’ crazy, connessa con gli animali e la natura, a volte un po’ dura e volevo anche celebrare la vita. Tutto si incastra e si accorda così bene! Nella prima canzone, “Saturday Moon”, percepisco alcune somiglianze con “Tumanako”, l’ultima canzone del tuo precedente album. Ho pensato che potesse essere una sorta di ponte tra le vecchie canzoni e le nuove. Ha senso per te? Sì, ce l’ha. Non ci avevo mai pensato... Interessante osservazione! “Pūwawau” è stato uno dei miei album preferiti del 2019. Potresti dirci qualcosa riguardo il concept relativo a quel disco e come scrivesti quelle composizioni? Ho amato come sperimentasti contemporaneamente con elettronica e arrangiamenti orchestrali. Era come una vera unione tra futuro e passato. Quel disco era davvero speciale! Solitamente scrivo in maniera molto istintiva. Ma con “Pūwawau” ho fatto proprio delle ricerche. Volevo saperne di più sulla capacità di connessione delle voci in tutto il mondo. I Maori in particolare sono stati una grandissima fonte di ispirazione. Cosa succede se ci allontaniamo dal mondo occidentale dove il risultato conta di più del rituale e quando abbiamo il coraggio di sentire davvero quando cantiamo e ci connettiamo con gli altri? Con queste idee in mente, cominciai a scrivere. Dopodiché ho lavorato con Valgeir Sigurdsson per scrivere quegli arrangiamenti che non sarebbero stati per niente facili per altri cantanti. Ci siamo presi un sacco di rischi! Pensi che dopo la pandemia le nostre vite cambieranno su un piano sociale o personale? Questa esperienza modificherà magari positivamente il nostro modo di relazionarci con la natura, con la flora e la fauna? Lo spero davvero. Spero che potremo semplicemente “essere” piuttosto che “fare”. Spero che smetteremo di desiderare con tale bramosia tutto il tempo. Spero che riusciremo a essere più in pace con il luogo in cui ci troviamo e che potremo riconnetterci un po’ di più con la natura in modo da salvaguardare anche il pianeta dai cambiamenti climatici. Sì, lo so, sono molto naïf. Hai qualche novità riguardo i Distance, Light & Sky? Aaaah non ancora, ma non posso immaginare che non faremo un altro disco insieme. Suonare in questo trio non potrebbe essere più naturale di così. Non c’è bisogno di parole. Grazie per il tuo tempo e per la tua musica. Spero di poterti vedere presto da qualche parte e poter sentire la tua voce cantare dal vivo queste canzoni. Stay safe! Anche tu! (25/04/2021) |
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Mettendo Sleepingdog a riposo di Lorenzo Righetto Cominciamo dall’inizio: i tuoi anni come Sleepingdog. Ciò che mi colpisce è una certa maturità, in un progetto agli inizi come quello. Cosa ti ha ispirato a creare Sleepingdog e cosa c’era prima? Avevo una band chiamata Chacda. Adoravo suonare con loro, ma mi mancava qualcosa che fosse interamente mio. Allora ho iniziato Sleepingdog, ma essendo Adam Wiltzie il miglior amico il progetto si sviluppò naturalmente come duo. È stato un processo così stimolante lavorare con lui. La combinazione di cantautorato e ambient suonava davvero speciale. Come descriveresti la tua evoluzione come artista e cantautrice durante gli anni di Sleepingdog? Come guardi a quell’esperienza dal punto di vista attuale di “Chantal Acda”? Ho imparato molto, in quegli anni. Penso di aver lentamente sentito il mio bisogno, nel fare musica, di calmarmi. Di sentirmi a mio agio nel mondo. Adam è un musicista fantastico, che si lascia ispirare dai suoni. Questo era nuovo per me, essendo una musicista impulsiva. I suoi suoni atmosferici mi hanno calmato. Dopo un po’ mi sentii bloccata, però. Sentivo il bisogno di liberarmi. Per quanto amassi e ancora ami Sleepingdog, era anche piuttosto statico, in un certo senso. Sentivo il bisogno di essere libera e di suonare con altre persone improvvisando. Registrare momenti, invece di mesi di lavoro. Lavorare con più persone, meno overdub, più persone in una stanza che registrano canzoni. Mi serviva un approccio più spirituale alla musica. Liberare la mia voce e trovare la mia forza invece di nascondermi dietro una persona forte e bella come Adam. A questo punto ho iniziato a lavorare sul mio disco solista. Quindi hai deciso di mettere Sleepingdog a riposo e hai iniziato un progetto veramente solista, con il tuo nome sopra. Cosa ha generato questa decisione? Volevo lavorare con altre persone, ma non con una collaborazione 50/50. Volevo la musica e il processo ad essa connesso fosse un modo per abbracciare le mie emozioni, le mie lotte, la mia intensità e spiritualità. Io e Adam restammo coinvolti sentimentalmente e diventò difficile lasciarne fuori la musica. Tutto sommato, penso che dovessi trovare la mia forza. E questo lo potevo fare solo abbracciandola totalmente invece di avere paura della mia fragilità. “Let Your Hands Be My Guide” è anche il risultato di molte collaborazioni. Come hai incontrato i collaboratori nel disco e come avete lavorato insieme? Conoscevo Peter Broderick da lungo tempo e attraverso di lui ho incontrato anche Nils [Frahm, ndr]. Ho assistito a diversi concerti di entrambi e ho anche suonato in supporto a Nils in un concerto a Parigi. Suonò qualche canzone con me e durante la stessa settimana abbiamo iniziato a parlare. Di me che mi sentivo bloccata – divenne lentamente chiaro che avremmo lavorato insieme. Gyda [Valtysdottir, violoncellista dei Mùm, ndr] era una delle persone, insieme al mio ragazzo, che mi disse di essere imprigionata in una scatola. Fu la mia salvezza che mi mettesse davanti a questo fatto. Mi fece pensare. Ci incontrammo quando era in tour con A Winged Victory For The Sullen. Aprimmo con Sleepingdog e lei iniziò a suonare con noi. Shahzad [Ismaily, ndr] non doveva essere parte delle registrazioni. Doveva solo lavorare al missaggio. Ma la sua energia mi colpì molto. Nils, Peter e Gyda stavano bevendo caffè in un momento in cui mi esercitavo con una canzone. Shahzad entrò, afferrò la mia chitarra e iniziò a suonare. E allora Nils corse al banco di registrazione e iniziammo a suonare insieme. Mise tutto al posto giusto. Ho adorato “Let Your Hands Be My Guide”, sicuramente uno dei dischi più commoventi di questi ultimi anni. Ho anche notato una certa differenza di tono rispetto ai tuoi dischi precedenti, una maggiore maturità e un modo più sobrio di comunicare la tua intensità emotiva. Consideri questo un risultato solo degli arrangiamenti o hai notato (o cercato) un cambiamento anche nella tua scrittura? È molto toccante sentire che apprezzi così tanto il disco. Quello che sento è che sono in un posto diverso. Niente è sembrato lo stesso dopo le registrazioni. Davvero strano. Mi sentivo davvero liberata da una grande pietra che ho sempre avuto dentro, nel mio corpo. Penso che stessi lottando molto contro il mondo. Non mi sentivo a casa. In questi momenti, nello studio, il mondo ha cominciato ad avere senso. Mi chiedo ancora se altri musicisti hanno un’idea di quanto questo influenzi la mia vita quotidiana. È grandioso che questo si rifletta sulle persone che vogliono ascoltare il disco. Come hai in programma di suonare “Let Your Hands Be My Guide” dal vivo? Nonostante sia così scarno, penso non sia facile da riprodurre del tutto… Andrai in tour con Peter o Nils? Ho appena fatto i miei primi cinque concerti in Belgio. C’era Nils e abbiamo un batterista jazz pazzesco, Eric Thielemans, e un chitarrista, Gaetan Vandewoude. Sono riusciti a farmi tornare al posto giusto. Il mio obiettivo sarà quello di contenere la libertà acquisita in studio e sento di poterlo fare con loro, anche se sarà diverso, naturalmente. È importante non tentare di copiare la registrazioni e basta. L’unica cosa che conta è la spiritualità. La sensazione di poter essere così vulnerabile mi rende più forte che mai. Ha senso? A volte è difficile spiegare queste cose! Rappresenti una parte importante della scena indipendente belga, come parte di Sleepingdog, True Bypass e ora come te stessa – sei stata anche negli Isbells. Puoi darci un rapido schizzo dell’ambiente musicale odierno in Belgio? Il Belgio è un paese un po’ strano. C’è così tanto caos qui. Lo adoro. Molti musicisti si aiutano a vicenda. Mi piace il fatto che ci siano molte contaminazioni tra stili diversi. È qualcosa che mi mancava molto quando stavo in Olanda. Puoi parlarci dei tuoi piani futuri dal vivo? L’Italia ne fa parte? Ci stiamo lavorando. Ho un ragazzo davvero adorabile che ci sta lavorando. Faremo prima un tour in Germania e Belgio e so che sta lavorando a qualcosa in Italia in questo preciso momento. Per essere onesta, le reazioni in Italia sono state assolutamente commoventi e non vedo l’ora di suonare per tutte queste persone aperte e dolci. |
SLEEPINGDOG | |
Naked In A Clean Bed (Muze, 2006) | |
Polar Life (Zealrecords, 2008) | |
With Our Heads In The Clouds And Our Hearts In The Field (Zealrecords/Gizeh, 2011) | |
CHANTAL ACDA | |
Let Your Hands Be My Guide(Gizeh, 2013) | |
The Sparkle In Our Flaws (Glitterhouse, 2015) | |
Bounce Back (Glitterhouse, 2017) | |
Puwawau (Oorwerk, 2019) | |
Saturday Moon(Glitterhouse, 2021) | |
Silently Held (Challenge, 2024) | |
BRUNO BAVOTA & CHANTAL ACDA | |
A Closer Distance (Temporary Residence, 2022) |
Arms Up High | |
Saturday Moon |
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