In questo disco fatto di duetti c’è una quantità enorme di drammaturgia, di botta e risposta fra le voci, di continui scambi fra i personaggi che tu e Mina interpretate, e che all'interno dei brani muovono le storie e creano una musica piena di teatro. In che misura hai giocato con questa tensione drammatica? È stata una delle idee di partenza che ha ispirato il progetto? È la prima volta che mi capita di scrivere un intero album per due interpreti. Non mi era mai successo prima. E mi sono trovato subito di fronte alla scelta, se vuoi al problema, di dover far dialogare due personaggi. Le canzoni non potevano essere semplicemente canzoni normali, divise a settori, dove ognuno canta una strofa. Si sarebbe anche potuto fare, ma nel nostro caso non volevamo che fosse così. Mina e io volevamo realmente parlarci, volevamo risponderci, volevamo rispondere l’uno all’altra. E allora mi sono reso conto che la mia scrittura dal punto di vista dei testi doveva essere diversa da quella mia abituale e la particolarità stava nel fatto che dovevo rispettare la mia visione delle cose e il mio racconto, ma contemporaneamente anche il suo. È come se si trattasse ogni volta di due stili diversi che convivono nello stesso brano, perché Fossati che canta in questo album è fedele a se stesso, ma anche Mina. Ho dovuto scrivere per lei in un certo modo, cercando idee e termini che fossero coerenti con quello che noi “sappiamo” di Mina, ma dovevo anche cercare di non trasfigurare me stesso. E soprattutto, alla fine, cercare di scrivere cose che avessero senso cantate insieme.
È interessante come questo dialogo fra le voci dia un tono più vivido alle canzoni... Quello sicuramente è dato dal passaggio, e il contrasto, fra la voce alta, pura e potente di Mina e la mia più profonda. E quindi anche lì, nella scrittura musicale e non soltanto nei testi, ho dovuto tenere conto di tante cose, dovevo scrivere musicalmente quello che andava bene a lei, ma anche tenere conto di me. E probabilmente questo restituisce la sensazione di vivacità di cui parli.
Nonostante le canzoni siano state scritte interamente da te, che peso ha avuto Mina nella trasformazione dei brani? Un peso notevole. Intanto devi sapere che con Mina si discute. Si parla molto. E in linea di principio lei non canterebbe niente che non condivida. Non è certo un’interprete a cui si può dare una canzone e basta. Intanto sa benissimo quello che rappresenta e quello che “deve dire”, e quale sia lo spazio dei pensieri che le appartengono. Quando abbiamo deciso di fare questo disco, la prima volta che ci siamo parlati mi ricordo che mi ha detto: “Io non so se so bene quello che mi piace, ma so benissimo quello che non mi piace”, e questo mi ha reso felice e mi ha facilitato subito il lavoro, perché ci siamo accorti poi, nelle settimane successive, che quello che non ci piaceva era esattamente lo stesso. Quello che non piaceva a lei non piaceva a me, per cui è stato facilissimo evitarlo. Mina ha un’idea molto netta dei suoi gusti musicali, per cui non è difficile lavorarci assieme. Quindi interviene, certamente, e aggiungerei che interviene portando qualità e molta decisione. Mina oltre a essere concreta è anche un’artista molto decisa. Sa quello che vuole e cosa rappresenta.
Ci sono grandi artiste che sono andate dietro alla propria voce, l’hanno modulata col tempo. La voce di Mina no, col tempo non cambia. E se cambia, per qualche strana magia, è come se non si avvertisse. C’è qualcosa di diafano, un alone, probabilmente rafforzato dal mito, che la fa percepire eterna, solida. Sei d’accordo o secondo te esiste una qualche trasformazione della sua voce? Hai composto le canzoni per la Mina di oggi? È una domanda interessante, ma secondo me non c’è una Mina di oggi e una Mina di prima. Mina resta quello che è. A questo proposito c’è un’altra cosa da dire altrettanto importante, ed è che lei avendo una tecnica così incredibile, è talmente dotata che si adatta con una facilità estrema ai vari modi di scrivere degli autori. Non ha nessuna difficoltà a entrare in ogni tipo di struttura che costruisci per lei. È incredibilmente duttile e non è mai necessario dirle come deve essere affrontata una canzone, perché lo sa già prima di te.
Personalmente il brano che preferisco è “Luna diamante”, perché contiene alcuni passaggi straordinari, quasi pucciniani, con la voce di Mina che è portata su dagli archi. Qui la tua voce è solo una comparsa, posta in chiusura, come una firma. Come si è sviluppata la scelta di farti da parte in questo brano? Mi ero fatto da parte già da subito, perché quella canzone l’avevo scritta solo per lei. E sapevamo da subito che, dato il testo, dato quello che racconta, non poteva essere altro che una canzone tutta sua, ma a lei dispiaceva che io non ci fossi nemmeno in un angolo. Allora è stata lei a trovare l’idea di quel piccolo coretto a bocca chiusa che arriva alla fine. Quindi è stata lei a volere che comparissi. Ed è stata una cosa molto carina da parte sua. La canzone però nasce per lei.
La tua originalità, a mio avviso, sta nel mettere continuamente in discussione il formato classico della canzone. Spesso giochi con la struttura dei brani, la disarticoli, allunghi a dismisura le strofe, ci parli dentro, giochi con il molto dire. Penso ad alcuni tuoi pezzi storici come “C’è tempo”, dove il miracolo sta nel fatto che la parola così abbondante non copre mai la musica. Anche in questo disco si sente la stessa impostazione, quest’attenzione a variare la forma, a dare prevalenza alla parola… Hai ragione. Posso dire che è un lavoro lungo. È un lavoro di anni che sto facendo, perché io non voglio rinunciare alla musica. So che può sembrare un’affermazione banale, o astrusa, ma per esempio molti cantautori, specialmente all’inizio degli anni Settanta, rinunciavano alla musica in favore delle parole e della letterarietà. Io invece non voglio rinunciare alla musica. Voglio che ci sia molta musica nelle mie canzoni, ma contemporaneamente voglio anche che ci siano molti pensieri. Ed è questo che fa nascere quello che dici. Io devo sempre trovare una forma che dia spazio all’uno e all’altro. È il mio modo di scrivere.
Forse è da “La pianta del tè” in avanti che hai perfezionato questa modalità… Diciamo che a un certo punto della mia carriera mi sono accorto che certe canzoni stavano perfettamente in piedi anche se la loro struttura non era perfettamente quella canonica. Ma non è una scoperta mia, non è una cosa di cui mi prendo il merito. Ho ascoltato moltissimi artisti stranieri che lo facevano molto prima di me. Penso a Randy Newman, per dirne uno, che è sempre stato capace di scrivere canzoni in termini tradizionali, ma poi quando gli serviva cambiare la forma lo faceva in un attimo, e lo fa tuttora, ma sempre ottenendo un risultato che alla fine resta una canzone, qualcosa che non diventa un’opera, non c’è la presunzione in lui, ma nemmeno in me, di creare qualcosa di sperimentale. Io amo le canzoni, ma le canzoni si possono fare in molti modi.
A mio avviso, la magia del tuo modo di scrivere sta nell’aprire continue parentesi e divagazioni che riescono comunque a non appesantire mai i brani, nel creare una musica letteraria e impegnata che rimane dentro un formato godibile… Mi fa piacere che lo dici. Non è stato semplice. Tutte queste porte che si aprono e che rimangono leggere sono la somma di qualcosa il cui risultato deve dare sempre semplicemente una canzone. E questo è il risultato migliore che si può ottenere, almeno per me. Il rischio, magari anni fa, invece, era quello di fare composizioni complesse, astruse, come sono state fatte da molti, almeno negli anni Settanta e Ottanta, ma che poi lasciavano il tempo che trovavano. La fatica non è mai quella di complicare. La fatica è quella di semplificare.
Nel testo di “Farfalle” sembri scherzare a volerti difendere dalle solite domande dei giornalisti, per cui raccolgo la sfida... Il testo di quel brano è soltanto un divertissement? C’è qualche significato che ci vuoi raccontare? È certamente un divertissement, ma ci sono dentro alcune cose che sono più profonde di una semplice filastrocca. Per esempio, la canzone parla del fatto di esserci, della felicità di esserci e di poter raccontare le cose. Ho cercato di far passare un’estrema semplicità, ma i pensieri ci sono. Per esempio, il fatto di osservare le cose intorno come vanno, quando si parla di quel treno che corre senza freni… ci sono momenti densi, ma trattati con leggerezza, tornando a quello che si diceva poco fa. Del resto sia Mina sia io siamo convinti che questo disco si rivolga a un pubblico attento, che capisce perfettamente fino in fondo le cose, anche le piccole sfumature e le piccole luci che stanno dentro ai testi o alle musiche. Siamo convinti che chi ci ascolta capisca perfettamente e non ci sia bisogno di fare un simposio su ogni pensiero o su ogni intuizione. A volte basta lanciare una piccola idea, accendere una piccola luce, e questo è sufficiente.
Sempre a proposito dei tuoi testi, sembri avere una predilezione per il fascino che sta nelle cose che non si comprendono, soprattutto per il non compreso in cui da sempre l’amore è avvolto. E tu sembri divertirti a nuotarci dentro… come se il non capire fosse un argomento buono, un’ottima fonte d’ispirazione... È vero. Il mistero del non arrivare a capire mi affascina… e una cosa di cui ho il terrore sono le certezze a proposito dei sentimenti. Ogni tanto mi capita di sentire delle vecchie interviste di Giorgio Gaber, quando parlava del dubbio, in cui diceva la stessa cosa, e questo mi conforta moltissimo. Io la penso allo stesso modo. Sono arrivato ad oggi che ancora devo capire quasi tutto sui sentimenti. Ma anche per molte altre cose, per i comportamenti della gente in generale... Come hai detto tu preferisco “nuotare” nelle incertezze e nei dubbi, piuttosto che nelle certezze, perché le certezze fanno paura, almeno a quelli come me, e poi storicamente producono dei mostri, per cui preferisco starne lontano.
Il tuo modo di scrivere, e di indugiare sulle cose e a volte di perdercisi, mi ricorda una splendida definizione di Marshall McLuhan che diceva che la letteratura è sempre la strada più lunga per arrivare da un punto a un altro, e anzi che l’essenza stessa della letteratura sta proprio in tutte le divagazioni che allungano il sentiero… Quello di cui parli altro non è che il pensiero, che è una cosa che non sta solo nelle strutture altissime, ma può stare persino nelle canzoni. Io prima citavo Gaber, oppure se prendiamo canzoni di Francesco De Gregori, per esempio… Non si può certo dire che lì il pensiero non c’è solo perché l’opera dura quattro minuti. E persino in alcuni campi dove teoricamente le divagazioni non esistono o non dovrebbero essere concesse, il pensiero c’è. Nelle formule matematiche per esempio… Certo, non nella matematica elementare, ma nella matematica altissima che sfiora la filosofia e ci si intreccia insieme, il pensiero c’è. Ed è vero che è la via più lunga e in certi casi più faticosa, ma è anche quella che poi ci illumina e crea le grandi opere, nella storia della letteratura come in altri campi, quindi quello di cui parli non riesco a chiamarlo in nessun altro modo che “il pensiero”.
Le tue canzoni sono generalmente dichiarazioni d’amore o riflessioni sull’amore, ma in alcuni casi anche vere e proprie creazioni di scenari. Penso a certi paesaggi sudamericani che hai creato in dischi precedenti a questo o alla stessa “Tex-Mex” di questo disco. In che misura scrivendo canzoni pensi a una scenografia? A me piace molto il cinema, almeno un certo tipo di cinema. E sono convinto che una storia abbia bisogno di un contesto. Raccontare una storia senza contesto è come raccontarla in una stanza buia. Si può raccontare una storia d’amore, ma se non c’è uno scenario dietro non funziona. A me piace che alle spalle dei protagonisti si intravedano delle cose, uno sfondo, anche giocoso. Per esempio, “Tex-Mex” è sicuramente una canzone giocosa. Alle spalle di me e Mina, di lei che ritorna e io che la aspetto, c’è una specie di scenario da Nuovo Messico e naturalmente tutto questo è teatro. Sono piccole scenografie di cartapesta, sono pennellate, sono il teatro piccolo, quello fatto in casa, le scenografie fatte con i lenzuoli che però sono sufficienti a farti “vedere”. Io sono sempre stato innamorato delle canzoni che si possono vedere con gli occhi senza bisogno del video. Per esempio le canzoni dei Beatles si vedevano. Le canzoni di molti artisti si guardano e non si ascoltano. Sarà una questione di generazione, ma quando i video non c’erano le canzoni le immaginavamo. Mi ricordo che “Eleanor Rigby” la vedevo come un film, per me era già fatta, e qualunque video che fosse stato fatto mi avrebbe deluso, perché era molto più bella l’idea che mi ero fatto io…
Pensi si possa fare arte dentro il formato popolare della canzone? Mi riferisco all’arte più importante, quella dagli esiti maggiori come la pittura, la scultura, la poesia. Pensi che la canzone sia una forma d’arte paragonabile a quei linguaggi? Lo chiedo a te che sei volato altissimo usando proprio il formato “piccolo” della canzone… A questa domanda non è facilissimo rispondere, perché fra gli autori di canzoni esistono vari tipi di impegno. Bisognerebbe cominciare a fare dei distinguo su certi modi di scrivere e certi altri, ma a me di fare distinguo non va molto, perché amo la canzone nella sua totalità. Dalle canzoni “piccole”, commerciali, fino a Jacques Brel. Io sono innamorato di tutte le forme della canzone, anche delle canzoncine. Credo che si tratti essenzialmente di arte popolare, che in certi casi sale, e arriva a livelli altissimi, ma se proprio devo dirti, credo che la forza dei veri grandi autori di canzoni sia quella di essere consapevoli di essere semplicemente autori di canzoni. Se ti esce un capolavoro, se Jacques Brel improvvisamente scrive “Ne me quitte pas”, io non credo che nel momento in cui l’ha scritta volesse diventare Prevert o Neruda, io credo che semplicemente stesse scrivendo una canzone.
(Leivi, 6/1/2020)
Condividi su
Discografia
DELIRIUM
Dolce acqua (Fonit, 1971)
IVANO FOSSATI
Il grande mare che avremmo attraversato (Fonit, 1973)