Un lungo viaggio fatto di gente, di musica folk e d’America, in compagnia di una fedele chitarra e con una valigia di storie da raccontare.
Lo statunitense John Craigie è una delle più interessanti rivelazioni all’interno di quella congerie di artisti che si ispirano al cantautorato folk tradizionale a stelle e strisce. Perennemente in tour, John incarna il vero spirito del cantastorie, sulla scia di grandi nomi del passato come Woody Guthrie e Bob Dylan, con una personalità e una padronanza sorprendenti per la sua giovane età. In una pausa tra un concerto e l’altro John ci ha concesso questa intervista.
Ciascuno di noi nel corso della propria esistenza attraversa una sorta di “percorso musicale”, che inizia dai primissimi ascolti in tenera età e prosegue poi indefinitamente, grazie alle svariate “incursioni” della musica nella vita di tutti i giorni. Nel caso specifico di un artista il legame con la musica è ancora più intenso e profondo. Ci racconti qualcosa del tuo percorso musicale?
Quando ero giovane ero molto preso dalla musica, ma una sua realizzazione concreta non mi sembrava proprio possibile, in quanto, almeno per quel che mi risulta, nella storia della famiglia Craigie non c’è mai stato un musicista. Non che la mia famiglia non fosse favorevole ad una eventualità del genere, ma la possibilità di fare musica non era mai stata presa in considerazione o incoraggiata. Credo poi che per la mia generazione (i ragazzini nati negli anni 80) ci fosse una forte pressione selettiva in direzione di una buona capacità vocale. Con questo non voglio dire che i ragazzi venissero incoraggiati a cantare bene, ma più semplicemente che c’era chi era nato con un talento e chi non lo era, e se facevi parte di quest’ultima categoria non venivi certo spronato a cantare.
Da quando mi ricordo ho sempre avuto il desiderio di cantare, di fare musica e di scrivere canzoni. Ero abbastanza sicuro, però, che questo desiderio non si sarebbe mai realizzato, perché sentivo di non avere il talento necessario. Verso i tredici anni ho cominciato, in segreto, a “scrivere” nella mia mente delle canzoni, che poi canticchiavo quando ero solo. Non le ho mai trascritte o registrate, né ho mai raccontato di queste canzoni a nessuno, visto che la cosa mi imbarazzava molto. Ad un certo punto avevo anche pensato di acquistare uno strumento, ma ho accantonato presto l’idea perché temevo di doverlo poi mostrare a qualcuno e avevo troppa paura di realizzare concretamente che non ero in grado di suonarlo. Nell’estate del 1996, quando avevo sedici anni, il mio migliore amico Shadi Muklashy comprò una chitarra e spesso quando andavo a casa sua lui suonava e mi mostrava le cose che aveva imparato: qualche pezzo dei Green Day, delle canzoni dei Pearl Jam o dei Nirvana. Io restavo sempre là seduto a guardarlo, facendogli da pubblico, senza mai chiedere di suonare, fino a quando una notte mi mise la chitarra in mano, mi mostrò un facilissimo riff di una canzone e me la fece suonare. Una volta tornato a casa, quella stessa notte, decisi che avrei iniziato a risparmiare del denaro per avere una chitarra tutta mia e circa tre mesi più tardi ne acquistai una. Dopo di che, presi la chitarra e iniziai a scrivere, e a quel punto mi restava solo da trovare il coraggio di mostrare al mondo il risultato. Ma questa è un’altra storia.
Nelle varie definizioni di “musica folk” che si possono trovare in giro sul web, uno dei comuni denominatori fa riferimento alla modalità di tramandare oralmente le canzoni e i racconti di generazione in generazione. Dal vivo tu dai ampio spazio allo storytelling, incarnando così a tutti gli effetti lo spirito del folksinger. Che rapporto hai con la tradizione e quali sono gli artisti folk del passato che hanno segnato più profondamente il tuo percorso musicale?
Al giorno d’oggi il folk risulta essere un genere particolarmente vasto. Ottanta anni fa la definizione “musica folk” era riferita in senso stretto alle più vecchie canzoni tradizionali e a quelle canzoni tramandate di generazione in generazione i cui autori originari erano stati dimenticati da tempo – cose come “I Know You Rider”, “House Of The Rising Sun” e altri classici della tradizione. Negli anni 60, però, il folk ha subito una importante svolta, attraverso la cosiddetta “esplosione folk”, in seguito alla quale gli artisti hanno ricominciato a scrivere i propri brani. Da allora il folk ha acquistato il significato di un genere con canzoni scritte apposta per intrattenere il pubblico, canzoni cioè dai testi facilmente accessibili, nei quali gli ascoltatori potessero identificarsi in qualche modo – per via di qualcosa di personale, per qualcosa di comune interesse, per qualsiasi ragione, a patto che essi fossero in grado di comprenderla e di identificarvisi. Solitamente il folk aveva una struttura musicale piuttosto semplice e testi brillanti.
Per me fare musica folk significa provare ad aggiungere qualcosa di mio al folk inteso come genere. Quando ho iniziato a fare musica in modo professionale, ho subito considerato la cosa come un lavoro, come se io fossi stato un dipendente dell’impresa e il mio lavoro fosse stato quello di scrivere canzoni, dalle quali sia io che il pubblico avremmo potuto trarre beneficio.
Persone come Bob Dylan, Joni Mitchell e Arlo Guthrie hanno contribuito a dare al genere del folk moderno il “la” iniziale; io stesso li ascolto ancora e tuttora ne traggo ispirazione. Tra gli artisti un po’ meno noti che hanno dato il loro contributo allo sviluppo della musica folk sono da citare John Prine e Townes Van Zandt, mentre tra i cantautori folk più moderni ci sono Greg Brown, Todd Snider e Dan Bern.
Si potrebbe dire che sei perennemente in tour, visto che da quattro anni i tuoi concerti si susseguono quasi incessantemente portandoti in giro per gli Stati Uniti. Qual’è stato finora il momento più toccante? E l’aneddoto più curioso?
Scegliere uno specifico momento, toccante o strano che sia, sarebbe praticamente impossibile. Non è come in un film, non c’è un solo momento di pathos: tutto può risultare toccante, così come tutto può rivelarsi strano.
I momenti più toccanti forse li vivo quando i fan mi raggiungono a fine spettacolo per dirmi come la mia musica li abbia aiutati: per alcuni si è rivelata di conforto durante una crisi di coppia o un divorzio, per altri è stata d’aiuto in un periodo di depressione o in un momento particolarmente difficile.
Dall’altra parte, quando i fan mi avvicinano a fine concerto si possono anche venire a creare i momenti più strani. Siccome molti dei concerti che faccio non hanno un backstage, e in alcuni casi il pubblico è poco numeroso, le persone si sentono molto a proprio agio nell’avvicinarsi a me, cosa che adoro, perché il mio lavoro non sarebbe niente senza le loro strane storie. (sorride) Dal momento che io stesso mi occupo del booking e sono sempre in viaggio verso nuove destinazioni, non so mai che cosa mi aspetta quando sono in tour. Uno dei momenti più strani l’ho vissuto quando ho fatto un concerto in un coffee shop che in realtà era una chiesa. Quando avevo prenotato per lo spettacolo in quel locale, avevo avuto l’impressione che fosse appunto un coffee shop. Una volta arrivato sul posto ho scoperto che si trattava effettivamente di un coffee shop, ma che questo era allocato “dentro” una chiesa.
Premetto che non ho alcun problema a suonare in una chiesa, suonerei ovunque e per chiunque, ma la mia musica non è necessariamente etichettata come “Christian music”. Nella programmazione musicale della serata mi hanno inserito tra due band di Christian metal, e confesso che ero un po’ preoccupato quando sono salito sul palco con la mia armonica e la mia chitarra variopinta. Mi è bastato però raccontare qualche storia e cantare alcune canzoni per scoprire che già tutto il pubblico era coinvolto dalla mia esibizione, e questo mi ha ricordato ancora una volta quanto la musica folk possa essere universale.
In un’intervista di qualche tempo fa, parlando degli album che ti hanno maggiormente influenzato, hai citato al primo posto “New American Language” di Dan Bern, un cantautore statunitense poco noto ai più. Sempre di Bern hai detto: “Dan and his guitar alone could take over the world”, sottolineando inoltre l’immeritatamente scarsa visibilità del cantautore che consideri un po’ come il tuo mentore. Quali aspetti del songwriting di Bern ti hanno colpito, in particolare?
Di tutti i musicisti dell’attuale panorama folk, considero Dan un po’ la mia “guida”, oltre che la mia principale fonte di ispirazione. Anche se abbiamo stili piuttosto diversi, tanto sul palco quanto nella scrittura musicale, ammiro enormemente il suo approccio artistico. Dan è capace di scrivere di qualsiasi cosa: se c’è una frase che vuole dire, la dirà, e non parlo solo di ciò che potrebbe essere discutibile o passibile di censura, ma mi riferisco a qualunque espressione che suoni stilisticamente scomoda o singolare. Molte volte può capitare che, nel bel mezzo della scrittura, a un songwriter baleni in testa una frase che suona bene ma che riesce difficilmente ad adattarsi alla struttura della canzone. Di solito va a finire che la frase viene buttata via, o in alternativa può essere rigirata in qualche modo, perdendo però il suo impatto originario. Dai testi di Dan emerge invece la sensazione che la maggior parte delle frasi siano quelle scaturite in origine dalla sua mente, e a mio parere questo è ciò che fa di lui un grande cantautore. “New American Language” è la perfetta combinazione del songwriting di Dan con l’eccellente produzione di Chuck Plotkin.
Sulla tua pagina MySpace, nella sezione “Influences”, citi tra gli altri i due brillanti registi Joel e Ethan Coen. In che modo il loro immaginario cinematografico influenza te e la tua musica?
Faccio riferimento a loro non tanto quando scrivo canzoni o quando compongo musica, quanto nel momento in cui mi siedo a registrare un album. Registrare un album per me è come girare un film: c’è una storia da raccontare e quando ha inizio la registrazione è come se la storia fosse incisa nella pietra, in modo da essere immortalata e restare così per sempre.
In questo senso affrontare un concerto è più facile che registrare un album, perché ogni volta si possono modificare le canzoni in modo da adattarle al pubblico contingente, permettendo così una evoluzione dei brani. Ciò che rende la registrazione di un album un’esperienza tanto intensa è il fatto che, indipendentemente dalla sua evoluzione, al termine della registrazione si ottiene un unico prodotto finito.
Quando devo registrare un album provo a immaginare questa esperienza come se fosse la registrazione di un film, prendendo spunto da grandi registi: i fratelli Coen, Hitchcock, Kubrick e così via. Per quel che riguarda in particolare i fratelli Coen, la loro cura dei dettagli è stupefacente; il modo in cui arricchiscono le loro trame di particolari e il modo in cui caratterizzano lo sviluppo dei loro personaggi sono per me una grande fonte di ispirazione.
Immagina di essere stato condannato a passare un anno intero in un’isola deserta. Avendo la possibilità di portare con te solo due album e un libro, quali sceglieresti?
Come dischi porterei “Rain Dogs” di Tom Waits e “Decade” di Neil Young. “Rain Dogs” è un album che per me non invecchia mai, mentre “Decade” rappresenta un bell’esempio pratico dell’eterogeneità musicale di Neil Young, un notevole mix di folk e il rock’n’roll.
Per quel che riguarda invece il libro, ne sceglierei uno qualsiasi di Mark Twain o di John Steinbeck: sono entrambi dei narratori talmente grandi che, tra tutti i libri che leggo, quando ne ho terminato uno dei loro mi verrebbe quasi da riprenderlo in mano e leggerlo di nuovo.
Molte delle immagini reperibili sul web ti ritraggono in compagnia della tua inseparabile chitarra acustica, la cui cassa variopinta è un tripudio di colori che è impossibile non notare. Ci racconti la storia di questo artwork?
Mi fa piacere che mi abbiate fatto questa domanda. Una delle cose che mi chiedono più di frequente è se io abbia dipinto la mia chitarra o meno. Nell’autunno del 2001 vivevo con un gruppo di artisti in California, a Santa Cruz, e una notte ho dipinto una semplice immagine sul frontale della mia chitarra. Alcuni dei miei coinquilini mi hanno chiesto se potevano aggiungere qualcosa a quell’immagine e nel giro di poche ore l’intera parte anteriore della chitarra era stata dipinta. Per tutto l’anno seguente, durante i party e nei ritrovi tra amici, chiunque avesse avuto una buona idea e avesse avuto voglia di cimentarsi poteva dipingere sulla mia chitarra. Alcune erano persone che conoscevo, altre erano persone che non avevo mai incontrato prima e che non ho mai più rivisto da allora. Ancora oggi capita che qualcuno venga da me indicando qualcosa che aveva dipinto sulla mia chitarra e di cui io non ero affatto a conoscenza.
Nei concerti in cui più artisti si dividono il palco, l’alchimia che si instaura tra di loro è molto importante perché ciascuno possa sentirsi a proprio agio ottenendo così i migliori risultati. Se dovessi avere l’opportunità di organizzare un tour con qualche altro artista o gruppo che apprezzi ma che non conosci ancora personalmente, chi sceglieresti?
Le mie esibizioni live sono di solito esclusivamente acustiche, e nella maggior parte dei casi suono in veste solista, ma apprezzo molto quelle band che appaiono davvero unite. Due dei gruppi con i quali mi piacerebbe lavorare sono Tom Petty and the Heartbreakers e i Wilco.
In questo periodo sei impegnato con il “Portland Basement Tour”, e la tua agenda è fitta di concerti. Durante le esibizioni dal vivo esegui, tra le altre, anche alcune canzoni inedite che probabilmente saranno inserite nel tuo prossimo disco. Come ti senti per questo nuovo album?
Sono molto emozionato per i miei prossimi due progetti. Il mio nuovo album sarà pubblicato nell’autunno del 2008: si tratta del mio primo album live, è la registrazione di uno dei miei spettacoli in California del nord. Questo live è molto atteso dai miei fan e sono piuttosto ansioso di pubblicarlo. Il prossimo album in studio uscirà invece nel 2009 e le sue sonorità seguiranno la scia di quelle che avevano caratterizzato “A Picnic On The 405”, prendendo qualche spunto da bluegrass e blues.
“Soft Hail” è attestato su sonorità morbide, che riprendono quelle distesamente cantautorali dei tuoi primi lavori, discostandosi in parte dal precedente “A Picnic On The 405” e dalle sue atmosfere più marcatamente roots. I nomi di questi due album sembrano un po’ anticipare quello che sarà il loro rispettivo contenuto. Come nasce la scelta di un titolo per un album?
Avete perfettamente ragione. Quando devo dare un nome a un album, voglio sceglierne uno che incarni non solo il suono del album, ma anche il suo contenuto poetico. Non so se tutti gli artisti scelgano il titolo con un criterio del genere, ma ho potuto notare che i miei fan lo apprezzano molto.
La titletrack di “Soft Hail” in origine era destinata a chiudere “A Picnic On The 405”, mentre poi ha rappresentato il punto di partenza per la costruzione del successivo album, al quale inoltre dà il titolo. Quali sono state le ragioni di questo “cambiamento di programma”?
Sia “Second Grade Awakening” che “Daddy Longlegs” includono delle “secret track”, cioè delle canzoni fantasma che si trovano a fine album ma che non compaiono in tracklist. Quando ho finito “A Picnic On The 405” volevo mantenermi fedele a questa usanza e aggiungere anche lì una “secret track”. Mi piace che le mie canzoni fantasma siano lievi e pacate, mi piace l’idea che possano creare un’atmosfera rilassante a chiusura di un album, come se ciascuna di esse fosse una specie di ninna nanna. Mi sono reso conto però che l’album al quale stavo per dedicarmi dopo “A Picnic On The 405” si sarebbe rivelato un’intera raccolta di canzoni attestate su atmosfere del genere, così ho deciso di lasciare “A Picnic On The 405” upbeat e rockeggiante, senza una canzone fantasma, e di far diventare l’album successivo “Soft Hail” una sola grande “secret track”. Nessuno dei due album ha una “secret track” e ho quasi la sensazione che i brani contenuti nei due album siano appaiati gli uni agli altri, come se ciascuno di essi rappresentasse la “secret track” per un brano corrispondente nell’altro album.
Nel bellissimo testo di “Soft Hail” ad un certo punto si legge: “Life is short I say to you. You just smile and say: life’s the longest thing you’ll ever do.” Questa magnifica frase rappresenta una riproposizione raffinatamente definitiva del binomio “bicchiere mezzo pieno – bicchiere mezzo vuoto”, lasciando presagire una risoluzione in positivo del conflitto, a favore del bicchiere mezzo pieno. In linea di massima, nella vita di tutti i giorni tendi ad essere più ottimista o pessimista? E in che modo questo approccio influenza la tua musica?
Credo che chiunque ascolti la mia musica percepisca una certa visione ottimistica all’interno dei testi, anche se allo stesso tempo emerge la consapevolezza dei numerosi motivi per i quali essere pessimisti. Penso che tutti i grandi scrittori abbiano attraversato il sottile confine esistente tra ottimismo e pessimismo. In linea generale, secondo me, ognuno di noi tende a non essere troppo ottimista, perché sarebbe un approccio scontato e poco realista, ma d’altro canto si cerca anche di non essere eccessivamente pessimisti, perché altrimenti si rischierebbe di lamentarsi in continuazione, e la gente è stufa di sentire le lamentele altrui. Per quanto mi riguarda, la cosa migliore che io possa fare per i miei ascoltatori è quella di lasciar cadere un piccolo spiraglio di luce in mezzo all’oscurità, e a ciascuno di loro sta poi la scelta di raccoglierlo o meno.
La delicata bellezza di “Tacoma” la rende uno dei brani più suggestivi dell’album, capace di raggiungere il cuore in punta di piedi e di restarvi accoccolato a lungo, cullandolo dolcemente sul battito leggero del suo picking. Che interazione si instaura tra te e la tua chitarra quando componi?
Durante la scrittura di un brano vorrei sempre che il suono proveniente dalla mia chitarra fosse di complemento all’immaginario creato dai testi. Proprio come in un film, cerco di scegliere la perfetta colonna sonora per ogni specifica scena. Con un brano come “Tacoma” ho voluto creare una melodia pacata e dolce, che si potrebbe suonare appena prima di andare a letto, nella speranza di non svegliare nessun altro in casa.
“Folk singers are like wine, they get better with age”, dici in uno dei tuoi brani. Sei piuttosto giovane e hai già pubblicato cinque album. Come ti immagini, musicalmente parlando, tra venti anni?
Quella citazione deriva dalle mie impressioni riguardanti il business della musica folk. Per un giovane cantautore come me è piuttosto difficile provare a scrivere dei testi che contengano un qualche messaggio. Le persone sembrano rispettare e ascoltare maggiormente i cantanti folk con molti anni alle spalle, quindi forse tra venti anni farò ancora quello che ho sempre fatto sino ad ora, ma con una sola differenza: più canzoni, più racconti e più credibilità. (sorride)
La nostra visione delle cose dipende sempre dalla diversa prospettiva attraverso la quale le osserviamo: in tal senso, nel momento stesso in cui una persona legge la parola “ora”, questa è già diventata “un momento fa”. Alla luce di questa riflessione, vorremmo infine chiederti qualcosa sul fluire delle tue sensazioni. Come immagini il tuo futuro tra due minuti? O meglio, quali sono le tue sensazioni in questo momento? O ancora meglio… quali erano un momento fa?
La cosa più bella per un cantante indipendente di musica folk è che il suo futuro non è mai scritto. Personaggi di spicco come Fergie o Justin Timberlake hanno un’intera associazione di gente che gira attorno alla loro immagine e alla loro musica; ci sono moltissime aspettative e un sacco di pressioni esterne che li spingono in una direzione o in un’altra. Per un musicista come me, invece, non c’è alcuna pressione. I fan che vengono a vedermi dal vivo vogliono solo prendere parte al concerto, vogliono solo ascoltare le canzoni che sto cantando in quel momento, non importa che siano vecchie o nuove, che siano serie o divertenti, non importa neanche che siano scadenti o di qualità. E’ per loro che io canto, e sono molto riconoscente per il solo fatto di averne l'opportunità.
(19/08/2008)