John Oswald - La gioia del saccheggio: etica delle plunderphonics

intervista di Filippo Bordignon

Quegli artisti che aprono nuovi orizzonti espressivi, sovente si distinguono non tanto per le risposte che forniscono ma, piuttosto, per la qualità delle domande che suscitano attraverso le proprie opere. In tali casi, le risposte normalmente pretese dall’ascoltatore risiedono semmai nelle domande evocate e nell’effetto domino che esse provocano nel contesto popolare.
Il canadese John Oswald, classe 1953, ha attraversato una carriera lunga 50 anni scardinando le regole della composizione come comunemente intesa, sabotatore culturale in grado di demolire alla base il concetto di diritto d’autore mediante la creazione di un genere musicale, battezzato
“plunderphonics”, traducibile in italiano come “saccheggiofonia”. Dai primi esperimenti del 1974 alla pubblicazione dell’imprescindibile album “Plunderphonics”, uscito nel 1989 per l’evanescente etichetta del nostro, la Mystery Tapes Laboratory, egli ha cementato una reputazione di de-compositore cult, licenziando musiche tanto ostiche quanto divertenti, il trionfo di una sregolatezza dada mediata dal rigore tipico dell’uomo di scienza.
Saggista, artista visivo, sassofonista informale in operazioni ai limiti del free, Oswald svetta tra i protagonisti mondiali di una ricerca a tutto tondo che travolge e reinventa ogni elemento gli capiti a tiro, con risultati, restando alla discografia, carichi di umorismo (si ascolti la destrutturazione della canzone “Bad” di Michael Jackson, divenuta “Dab”), ricontestualizzati in taglia-e-incolla di geniale brevità (la trasfigurazione dei Doors “O’Hell”) e capaci perfino di aumentare il tasso psichedelico in cantautori già giudicati estremi dalla critica specializzata (la “Anon” che dilata l’esistenzialismo folk di Tim Buckley).
Quale che sia il progetto, si tratta sempre e comunque di provocazioni sostenute da un solido impianto filosofico, la cui portata è talvolta proporzionale alla reazione avversa con la quale ha risposto il mainstream, come in un episodio dell’89, in cui la C
anadian Recording Industry Association e la Cbs Records, su pressione di due azioni legali intentate dal management di Jacko, ordinarono e ottennero la distruzione dei cd contenenti il brano incriminato (“Dab”) e, soprattutto, la sua dissacrante copertina collage, che sovrapponeva il corpo di una donna nuda su quello del Re del pop. Le rivoluzioni, in particolar modo quelle culturali, riaccendono i roghi tra le mani di chi non è disposto a perdercisi dentro.

John, partiamo dagli anni del college. Che rammenti del prezioso progetto World Soundscape?
Nell’autunno del 1973 lasciai la mia città natale, Kitchener, volando a Vancouver. Lì frequentai per due trimestri la Simon Fraser University, che era posta in cima a una piccola montagna; l’università offriva, tra gli altri, corsi di fisica, kinesiologia e comunicazione; quest’ultimo teneva per insegnante il neo-professore Barry Truax, che era anche un compositore di computer music, e c’era anche un corso di Raymond Murray Schafer, altro compositore e autore di libri come “Ear Cleaning-Notes For An Experimental Music Course”, “The Book Of Noise” e “When Words Sing”, i quali, mi sa, avevo letto ancor prima di conoscerlo. Nonostante fossero entrambi compositori, non proponevano lezioni riguardanti la musica. Quando arrivai, Schafer aveva già costituito il World Soundscape Project, ed era in procinto di pubblicare la sua prima fatica, un doppio Lp intitolato “The Vancouver Soundscape”. C’era una stimolante atmosfera di ricerca. Ricordo di aver prodotto, in quel periodo, delle sperimentazioni video, per le quali venni considerato uno svalvolato. Quando smisi il percorso scolastico, continuai comunque a occuparmi del World Soundscape con mansioni che non avevano a che fare con la creatività, ma mi dedicai anche ai miei progetti artistici, utilizzando il Sonic Studio usato normalmente per il progetto.

Qual è il tuo intento principale?
Vivere e lasciar vivere e, perché no, sforzarsi anche di creare dei capolavori o, almeno, di ri-concepire capolavori esistenti in forme differenti ma altrettanto valide. Il tutto, aggiungiamoci, sperimentando lungo questo percorso dei momenti speciali, del genere “oh, dovevi proprio esserci!”.

Da che hai esordito nel business musicale a oggi, sono cambiate, queste intenzioni?
Guarda un po’, non mi ero mai accorto di aver “esordito” nel “business musicale” o, per lo meno, non da un punto di vista del riscontro commerciale. Di questo settore, comunque, ho percepito occasionalmente un diffuso senso di paura e disorientamento.

La tua estetica deve molto a William S. Burroughs e Brion Gysin.
Allora. Sì, ero e sono consapevole del fatto che il mio taglia-e-incolla del nastro audio è un’operazione fisicamente simile al cut-up portato in auge da Burroughs col materiale stampato. Lui e Gysin però usavano il loro metodo come una sorta di generatore casuale di testi o immagini per creare accostamenti altrimenti inimmaginabili. Al contrario, con i pezzi che sono confluiti nel mio lavoro musicale “Burrows” del ’75, ho preso degli estratti da un reading di Burroughs registrato sul Lp, riorganizzando parole e frasi in modo deliberato e non casuale. Ho optato per questo materiale di partenza innanzitutto perché mi piaceva un sacco il suono della sua voce, ma anche perché le parole pronunciate fornivano un’eccellente base di partenza per le mie riconfigurazioni.

Hai mai incrociato il personaggio?
Sì, nel 1975, al Cinema Lumiere di Toronto, dove aveva tenuto un reading. Lo incontrai dietro allo schermo cinematografico: se ne stava seduto su una di quelle sedie-pavone in rattan; alla sua destra, in piedi, James Grauerholz, che presentò come il suo agente letterario. Alla sua sinistra, invece, c’era un ragazzo, “Il mio avvocato”, ci disse. Aveva uno strano modo di scrutarti dentro. Gli consegnai una copia da 5 pollici del nastro di cui sopra e, a cose fatte, gli chiesi il permesso di usare la sua voce. Sapevo bene che c’era il rischio che mi arrivasse una risposta negativa… avevo speso almeno 200 ore lavorando su quel taglia-e-incolla. Se avesse detto “no”, mi sarei sentito in dovere di non diffondere la risultante. E invece mi diede l’ok che speravo, senza limitazioni. Da allora, non ho più chiesto a nessun personaggio famoso il permesso per saccheggiarlo.

Come sei giunto all’epifania delle “plunderphonics”?
Ho delle idee che mi sono passate e mi passano per la mente, certo, ma le plunderphonics non le considero un’idea vera e propria quanto, piuttosto, un metodo, per me abbastanza ovvio, di ascoltare creativamente. Tutto è iniziato quando avevo sette anni, grazie alla mia prima radio a transistor: scoprii come la sintonizzazione delle frequenze Am e delle onde corte potesse cambiare e distorcere il suono. Qualche anno dopo, mediante il mio primo giradischi a 4 velocità di riproduzione, capii che potevo scegliere se ascoltare la musica più velocemente o lentamente, non come aveva stabilito l’autore, quindi, ma come volevo io che la stavo riproducendo. Passarono un altro po’ di anni e acquistai un registratore a bobina, con il quale mi ingegnai non solo a registrare della musica ma, soprattutto, a ri-registrare, invertire e modificare suoni, dischi, programmi di ogni genere ecc. Quelli erano i miei strumenti musicali e, grazie a essi, potevo sperimentare pressoché su ogni tipo di musica mi capitasse a tiro. Poi, a volte, mi venivano delle idee per composizioni da registrare e da eseguire nella modalità tradizionale; però poi tornavo a progettare nuove strategie per presentarle agli ascoltatori in maniera originale.

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Sotto un profilo de-compositivo, possiamo affermare che parte dell’ispirazione per “Burrows” sia derivata dall’ascolto di una canzone… pardon, di un brano, come “It’s Gonna Rain” di Steve Reich?
Mi piace l’idea che “It’s Gonna Rain” oggi possa essere considerata una canzone! Il primo brano di Steve Reich che ho ascoltato e acquistato è appena successivo a “It’s Gonna Rain” , e si intitola “Come Out”, un esempio della sua tecnica di sfasatura di nastri in loop, un approccio che Reich ha definito “nuova forma di canone”. C’è solo uno degli otto brani di “Burrows” che è influenzato da quella tecnica reichiana, ed è “Word Falling”. Ma nonostante si tratti di due nastri in loop sfasati, non è un canone; a essere precisi è un hoquetus sfasato dei fonemi che compongono il verso “word falling”, alternando i fonemi tra i due nastri in loop, i quali si sovrappongono l’uno all’altro creando nuovi fonemi, ritmi e significati. Allego un link dove si possono suonare in streaming i brani di “Burrows”; alcuni possono essere riprodotti anche al contrario e, inoltre, si possono suonare anche tutti contemporaneamente, così da determinare ogni volta una composizione diversa.

Ogni brano produce un effetto differente, in base alla strategia impiegata.
Ad esempio, nel quarto pezzo, “And Just Let Me Tell You”, la lunghezza degli spazi aumenta in base alle ripetizioni implicite nel resto della frase. Il quinto “I Got”, è, da un punto di vista acustico, palindromo, e l’ho considerato in un contesto di riproduzione dritta e rovescia. “So Unspeakably Distasteful” consiste nell’interpolazione di ripetizioni su ripetizioni.

Il minimalismo ti ha appassionato?
Non in modo significativo. Anche se, a suo tempo, ho acquistato gli album di Glass, Reich e Riley, apprezzando in particolare gli ultimi due. Nel frattempo, mi piaceva la massima varietà. Ecco, amavo molto la prima registrazione di “In C” di Riley, quella pubblicata sul Lp nel 1968. Proprio ieri ho ascoltato David Rosenboom, che suonava la viola in quel disco, raccontare dell’atmosfera unica che si respirava nello studio di registrazione dopo che gli undici musicisti ebbero terminato di suonare dal vivo quei 42 minuti di musica. Ci fu un silenzio assai lungo, e poi il produttore, David Behrman, sentenziò: “Mi sa che abbiamo appena cambiato il concetto stesso di musica”. Mi scuso con entrambi i David se, rispondendoti, non ho riportato esattamente quanto hanno detto.

Non sei interessato al concetto di ripetizione?
Se non mi posso dire realmente interessato alla ripetizione, l’ho comunque impiegata, a piccole dosi, evitando però l’abitudine comune di ripetere tutto a gruppi di quattro. Eppure, a ben guardare, un po’ di ripetizione intesa con originalità può essere un sollievo, contro una sovrabbondanza di varietà.

Con il mini-album “Plexure” (1993) il tuo approccio è divenuto ancora più frammentario e astratto. La caratteristica di godibilità, in un brano, non ti interessa?
Cavolo, Filippo, questa domanda può sembrare un insulto, dato che la “en-joy-ability” (“godibilità”, ma anche “capacità-di-portare-gioia”) è sempre stata il mio scopo principe, nel lavoro come nella vita. Mettiamola così: tutte le plunderphonics, incluso “Plexure”, sono astrazioni nel senso letterale del termine. Per astrazione si può intendere anche l’estrazione o la rimozione di qualcosa da un dato contesto. In inglese infatti puoi dire “…to abstract more water from streams” o, usando un piccolo eufemismo, “his pockets contained all he had been able to ‘abstract’ from the apartment”. Qualche anno fa mi fu chiesto quali musiche avrei portato con me su un’isola deserta (un’isola, ovviamente, munita di sistemi per la riproduzione sonora) e risposi che, onestamente, avrei preso, prima di tutto, i dischi che ho creato io stesso (più uno o due tra quelli che ho prodotto). Una scelta egoistica solo in apparenza, che contiene un motivo più che concreto: le mie registrazioni sono state create prima di tutto per soddisfare i miei personali desideri di ascolto. Ciò che ho realizzato è stato fatto per colmare i buchi più disdicevoli nella mia collezione di dischi. Assumendo la posizione dell’ascoltatore posso produrre cose che, ancor prima di considerarle “la mia musica”, sono esattamente ciò che voglio ascoltare. Il tempo e l’esperienza hanno palesato che queste registrazioni, guarda un po’, piacciono anche ad altri, non soltanto al sottoscritto, ed è la ragione per cui, a volte, non mi limito a stampare una sola copia di un album.

Non abbiamo affrontato il tema del tuo rapporto con la musica dal vivo.
All’elenco di registrazioni per l’isola deserta mancano le testimonianze di ciò che ho suonato dal vivo. In effetti, per quanto possa giustificare razionalmente la loro esistenza, spero che queste testimonianze finiscano piuttosto nell’isola deserta di qualcun altro. Fruirle mi trasmette la stessa sensazione di disagio che hanno certe persone ascoltando la registrazione della propria voce. Forse è per questa ritrosia che non riesco ad ascoltare nemmeno le registrazioni del mio ensemble di improvvisazione preferito, il Double Wind Cello Trios.

Manco un’eccezione?
Inspiegabilmente, il mio album per sax solo del 1980 mi piace molto.

Per comprendere il tuo approccio alla musica acustica ieri ascoltavo una tua performance al sax con Ken Aldcroft e Mike Gennaro. Che tipo di musicista sei?
Semplicemente, suono. E improvviso. Il mio lavoro con le plunderphonics e quello con gli strumenti acustici sono due cose totalmente diverse.

John OswaldC’è qualcosa che non mi torna nel tuo sito 6q.com. Io e altri colleghi abbiamo tentato di navigarci ma visualizziamo soltanto un dettaglio della scritta “6q”. Che fare?
Ci sarà stato un piccolo problema quando siete passati da quell’url. Adesso è di nuovo funzionante. Ho concepito il sito 15 anni fa ed è stato realizzato da una società specializzata in progettazione di siti web, la bNotions, il cui capo progettista, Mark Reale, ha poi tenuto una presentazione di 6q.com a una conferenza di web designer, che ha intitolato “Probabilmente il progetto WordPress più strano che abbiate mai visto in vita vostra”, titolo non privo di una sua verità. Le 6q(uestions) a cui fa riferimento il sito sono quelle di who, what, where, when, why, how (chi, cosa, dove, quando, perché, come) e, più generalmente, il sito è inteso come una mappa dinamica di testi e immagini.

C’è Phil Lesh, bassista dei Grateful Dead (scomparso proprio qualche giorno fa, ndr), dietro a “Grayfolded”; com’è nato e si è sviluppato l’album?
Phil e il suo compare David Gans mi contattarono telefonicamente per propormi di esplorare la musica dei Dead attraverso il mio stile; diciamo che mi persuasero ma non mi ci buttai subito a capofitto. Phil era un estimatore delle plunderphonics, sicché mi mise a disposizione l’archivio dei Dead: rovistai tra 25 anni di registrazioni live, concentrandomi sul loro cavallo di battaglia, “Dark Star”, canovaccio che veniva usato dalla band per i suoi folli voli improvvisati. Non si tratta perciò di una versione riproducibile del pezzo - anche perché sarebbe impossibile che fossero state presenti sullo stesso palco tre generazioni diverse di Jerry Garcia - ma si ha comunque l’illusione di assistere a un live dei Dead, composto selezionando tra 100 versioni di “Dark Star”. Si è trattato di un soggetto adatto a me, poiché offriva una vasta gamma di possibilità diverse, ma con una base coerente. In ogni versione è accaduto qualcosa che non era presente nelle precedenti: il mio lavoro, dunque, è stato quello di concentrarmi sulle eccezioni, più che sulle regole. Diciamo che ho cercato di creare una “Dark Star” poco ortodossa, limitando il ricorso alla tecnologia e cercando di preservare la purezza delle performance. Occhio che c’è in giro anche una versione più recente di “Grayfolded”, che consiste nei primi 45 minuti del doppio album originale, ed è stata commissionata dal produttore Massimo Simonini e trascritta da Domenico Caliri, il quale ha anche condotto il nonetto che l’ha eseguita alla premiere tenutasi a Bologna nel 2015 in occasione dell’Angelica-Festival Internazionale di Musica. Uno di questi concerti, missato dal sottoscritto, sarà prossimamente disponibile su cd.

Come differiscono concettualmente le “plunderphonics” dai campionamenti impiegati, a esempio, nel mondo del rap?
Tutta la musica popolare (e anche la musica folk, per definizione) esiste essenzialmente, se non legalmente, in un contesto di dominio pubblico. Ascoltare musica pop non è proprio una questione di scelta. Che la si voglia ascoltare o meno, ne siamo bombardati costantemente. Nel suo stato più insidioso, sostenuta da un’incessante linea di basso, si insinua tra le pareti dei nostri appartamenti ed entra nelle teste delle persone. E anche se, oggi come oggi, la gente produce più rumore che mai, sono sempre meno quelli capaci di andare oltre il rumore assolutizzante prodotto dai protagonisti delle heavy rotation e dai vincitori dei tripli dischi di Platino. È roba impossibile da ignorare, ridondante e sostanzialmente inutile, che ci condanna a essere destinatari passivi. E sai quale fu la strategia suggerita dall’oceanografo Robert Ballard del Deep Emergence Laboratory per riportare a galla il Titanic, una volta che questo venne localizzato sul fondo dell’Atlantico? “Colpitelo con ogni dannato sistema riuscite a immaginare”. A questo punto una domanda: i materiali sonori che ispirano una composizione possono, in certi casi, essere considerati essi stessi composizioni? Nell’ambito specifico di un campionatore, poi, esso è, in sostanza, uno strumento di registrazione e di trasformazione ed è, dunque, contemporaneamente, un dispositivo di documentazione e un dispositivo creativo, finendo per ridurre, di fatto, questa distinzione che è presente nel concetto di diritto d’autore. Bisognerebbe fare un discorso a monte, partendo dal 1976, quando la legge statunitense sul diritto d’autore è stata rivista per proteggere, per la prima volta, le registrazioni sonore nel paese. Prima di allora, infatti, solo la musica scritta era considerata tutelabile. Poi dovremmo analizzare il significato della parola “autore” secondo l’autorità competente. Ma la questione si farebbe assai lunga.

Tre domande per rendere comprensibile ai lettori il tuo articolato punto di vista sui diritti d’autore. Prima: la tua è da intendersi come una battaglia contro il copyright?
Ho affrontato compiutamente il tema in un breve saggio scritto negli anni 80 che ho chiamato Creatigality. Ti risponderei così: non definirei la mia una “battaglia” quanto, piuttosto, un chiarimento o, meglio, un accomodamento che mette alcuni puntini sulle “i”.

Seconda: c’è un limite nell’impiego di campionamenti da materiale altrui, oltre al quale è lecito parlare di plagio?
Una “plunderphone” è una citazione musicale non ufficiale, ma riconoscibile. I prestiti palesi dei “corsari del suono” sono una cosa distinta dal comune saccheggio di campioni, dallo scimmiottamento o dal furto di melodie.

Terza: in base alle tue teorie, in che modo a un compositore sarebbe consentito tutelarsi?
Agli artisti direi questo: se campionate, date il giusto credito. E se siete stati campionati, considerate il credito che vi è stato dato.

Un altro tassello importante del tuo percorso è l’incursione nel repertorio della Musica Classica, per il quale hai coniato la categoria Rascali Klepitoire.
Questi pezzi sono legati alla plunderphonics ma, invece di essere creati da registrazioni audio, derivano da partiture, che i musicisti tradizionalmente alfabetizzati possono suonare. Tutto ha avuto inizio con la mia seconda commissione da parte del Kronos Quartet, nel 1991. Recentemente si è aggiunto al repertorio Rascali Klepitoire un pezzo per pianoforte solo commissionato da Marc-André Hamelin, definito da una parte della critica specializzata “il dio di tutti i pianisti”. Negli ultimi quattro anni ho finalmente iniziato a caricare gran parte di questa musica su Bandcamp; attualmente sono stati pubblicati una mezza dozzina di album, che possono essere ascoltati in streaming o scaricati all’indirizzo pfony.bandcamp.com.

Impieghi lo stesso approccio per ogni genere?
Eh no. Amo scovare una nuova strategia per ogni progetto in cui sono coinvolto.

Tre compositori che hanno rivoluzionato la maniera di intendere la musica, nel Ventesimo secolo.
Beh, tre è un numero molto piccolo per un’indagine di questo tipo, sicché te ne nominerò quattro, dato che uno di questi rivoluzionari l’ho già citato: Schafer. Il suo World Soundscape Project, con il contributo di Barry Truax e Bruce Davis in particolare, ha creato una serie di programmi radiofonici trasmessi a livello nazionale intitolati “Soundscapes Of Canada”, nel 1974. Il ricordo della prima volta che li ho ascoltati mi accompagna ancora oggi. E anche se la musica di Schafer è un po’ troppo teatrale per i miei gusti - pur essendo molto buona - e anche se le sue esibizioni fuori dalle sale da concerto, magari in riva a un lago, possono durare un giorno o una notte interi, restano esempi sorprendenti di espansione dell’universo musicale. Un’altra canadese, questa espatriata, che surclassa i suoi contemporanei nella categoria cantautori/musicisti famosi nel periodo in cui scoprivo la musica, negli anni 60, è Joni Mitchell. Poi c’è Karlheinz Stockhausen. Egli, tra i miei precursori proto-plunderfonici, è stato il più influente, soprattutto in lavori quali “Telemusik”, “Hymnen” e in altri grandi (anche se, a volte, prolissi) dischi che esploravano territori musicali sconosciuti durante gli anni 50, 60 e 70. Una volta mi inviò una cartolina natalizia con su scritto: “Reinventare registrazioni musicali esistenti è segno di debolezza: per favore, inventa completamente la tua musica, non toccare opere altrui, che sono i messaggi di altre anime”.

Un messaggio definitivo.
Messaggio che ho scelto di ignorare totalmente, soprattutto perché la sua nota era in risposta all’invio del mio cd “Aparanthesi”, lavoro che non contiene citazioni esterne d’alcun tipo ed è esclusivamente farina del mio sacco.

Manca un compositore, perciò.
Cecil Taylor. Uno dei primissimi album etichettati come “jazz” che ho acquistato è stato “Unit Structures” del 1966. Quell’assemblaggio peculiare di strumenti secondo i suoi criteri di composizione/improvvisazione ha rappresentato la mia introduzione a ciò che il jazz poteva essere. Ma mi ha anche insegnato a non prendere troppo sul serio le etichette che si appiccicano sulla musica. Ho seguito Taylor per i 50 anni successivi: spesso risulta prolisso, ma in modo esilarante.

I tuo criteri compositivi poggiano anche sull’alea?
Questa parola si porta dietro un significato diminutivo. Dal latino, “alea” è “gioco di dadi”, e anticamente la si associava al gioco d’azzardo. A ben guardare, c’è così tanta casualità/aleatorietà nella nostra vita… anzi no, nella vita c’è quasi esclusivamente il caso. Però, quando compongo, mi sa che mi impegno ad abbassare il livello di aleatorietà in favore di quello di determinazione.

Al sassofonista improvvisatore chiedo: riconosci dei limiti allo stile free jazz?
Per come me la metti, mi sa che non ti garba il free jazz. Che poi, l’improvvisazione è forse limitata al genere jazz? E, ancora, per il fatto di suonare il sax e improvvisare significa forse che sono legato necessariamente al jazz? Aggiungo: e se il mio essere free fosse perché spesso e volentieri mi piace esibirmi gratis?

Che caratteristiche deve avere un brano perché possa essere considerato arte?
Questo è un modo di pensare che non mi appartiene. In primis, perché la musica deve avere delle caratteristiche specifiche? E a chi importa se può essere considerata arte o no?

Oggi, cosa chiedi a te stesso?
Partiamo da cosa non chiedo a me stesso. Non mi domando mai cosa sia l’arte e se io sia effettivamente un artista. Mi chiedo invece, costantemente: “Cosa ti incuriosisce, adesso, cosa ti piacerebbe esplorare, su cosa vorresti giocare, su cosa vorresti metterti al lavoro?”

Da che ho conosciuto la tua opera, ti ho considerato il primo compositore breakbeat della storia. Chi, prima di te?
Sai che ho dovuto guardare cosa significa il termine breakbeat? È un po’ come quando è emerso il termine “jungle”, nomignolo vagamente razzista di etichettare qualcosa che era comunque troppo limitato per diventare propriamente un genere. Al tempo pensai che il mio pezzo “Angle” del 1990, in cui riassemblavo materiale doowop, potesse essere considerato un precursore della cosiddetta jungle. Ma forse, nel 1990, era già troppo tardi per una tale affermazione.

Parlando di strumentazione, come sono mutate le “plunderphonics” nel passaggio da analogico a digitale?
Il digitale ci sta, tranne per quella volta ogni morte di papa in cui qualche filtro mi fa venir voglia di tornare all’analogico. Però adesso posso creare una copia clone della sorgente o un’infinità di cloni di altri cloni, senza che si verifichi alcun tipo di distorsione e potendone trasformare a piacimento lo spettro acustico.

Ok, l’opzione digitale ti soddisfa.
Aspetta un minuto! A oggi non ho ancora sentito un corrispettivo in digitale che mi soddisfi più delle operazioni manuali di jockeying e scrubbing di un nastro analogico da bobina a bobina su una testina di riproduzione. Inoltre, nel mucchio, le copie fatte in analogico suonano più interessanti rispetto a un gruppo simile di cloni digitali.

Sei anche un artista visivo: in questa veste, qual è la tua massima aspirazione?
La riconoscibilità.

Come ti poni, nei confronti dell’occhio umano?
Concetto interessante, che probabilmente meriterebbe una risposta lunga come un libro. Perché potremo analizzare come mi pongo nei confronti degli occhi che sono incorporati nella mia testa da che sono al mondo. Oppure potremo analizzare la differenza di visione e, dunque, di percezione, tra l’occhio sinistro e quello destro. E, infine, come avvicinarsi allo sguardo e perciò alla diversa visione di qualcuno che non sono io?

In ambito di sabotaggio culturale, vorrei una parola su due realtà assai diverse tra loro: Christian Marclay e Negativland.
Sono d’accordo con te: due realtà assai diverse tra loro, che hanno creato cose meravigliose.

Un pizzico di politica: Trump alla Casa Bianca ti spaventerebbe?
Penso che ognuno debba decidere per il proprio voto senza influenze esterne, compresa la mia.

Captain Beefheart: “Le uniche regole che seguo sono quelle che mi sono creato da me”.
Preferisco una citazione dell’artista Michael Snow: “Creo le regole di un gioco e ci gioco; se sto per perdere, allora cambio le regole”.

Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Ti dà una vertiginosa confusione.

(27/10/2024)

Discografia

Improvised (con Henry Kaiser, 1978)
Moose And Salmon (con Toshinori Kondo e Henry Kaiser, 1978)
Plunderphonics (1988)
Discosphere (1991)
Plexure (mini-album, 1993)
Grayfolded (con i Grateful Dead, 1994)
Acoustics (con Henry Kaiser, Mari Kimura e Jim O'Rourke, 1994)
Bloor (con David Prentice, 2000)
Plunderphonics 69/96 (antologia, 2001)
Aparanthesi (2003)
Number Nine (con Michael Keith e Roger Turner, 2006)
Pietra miliare
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