Le date italiane di Loreena McKennitt si avvicinano, il nuovo lavoro “The Road Back Home” è uscito e l'artista canadese pare un treno in corsa, mai intenzionato a fermarsi. Come infatti leggerete, la sua vita è costellata di attività sia in ambito musicale che non. La sua cordialità in sede di intervista è davvero sorprendente: Loreena ha risposto alle nostre domande con quel misto di dolcezza e determinazione che possiamo riconoscere nella sua voce inconfondibile. Il mondo è la sua casa ed è lì che Loreena vuole accoglierci…
Loreena, cosa possono aspettarsi i fan dai tuoi concerti per il The Visit - Revisited tour? Con una formazione importante sul palco…
Beh, come è evidente dal titolo, suoneremo per intero il disco “The Visit”, dall'inizio alla fine, nel secondo set. Il primo set sarà invece composto da canzoni tratte da altri album. I musicisti con cui lavoro sono miei amici di lunga data: Caroline Lavelle al violoncello, Brian Hughes alla chitarra e bouzouki, Hugh Marsh al violino e Dudley Phillips al basso. Sì, non vediamo l'ora di tornare in Italia!
La prossima estate sarete nuovamente in Italia per cinque tappe che celebrano il trentesimo anniversario dell’uscita di “The Mask And Mirror”. Un disco che pone domande universali riguardo il significato della contaminazione fra culture lontanissime, attraverso un suggestivo affresco musicale della Spagna del XV Secolo. Ci puoi raccontare come nacque quel disco e cosa rappresenta per te?
Mh-hm... Beh, domanda eccellente! Per quanto mi riguarda, sono sempre stata interessata a cosa possa essere la spiritualità e quale sia il suo ruolo nelle nostre vite, in quanto specie umana. E non si può riflettere sulla spiritualità senza accogliere a bordo il ruolo della religione. Credo che le religioni fossero una risposta a questo bisogno di essere impegnati spiritualmente. Quando stavo facendo ricerche sulla storia dei Celti, uno dei primi posti che ho approfondito è stata la Spagna, partendo dall'angolo nord-occidentale della Galizia. Ma non si può capire o apprezzare la storia spagnola senza apprezzare il ruolo della cultura marocchina. E anche il periodo di tempo in cui le comunità giudeo-cristiane convivevano in modo accettabile. Dunque, “The Mask And Mirror” fu l'esplorazione dei diversi aspetti di tutto ciò. Ho anche riflettuto sul sentiero dei Sufi che al tempo erano associati, da molta gente, prevalentemente all'Islam: c'è questo scrittore chiamato Idries Shah che argomentava invece che i Sufi dovrebbero essere collocati al di fuori dell'Islam. Comunque, ciò di cui parlavano era, per esempio, il concetto di pulire lo specchio della propria anima. Ciò si colloca in quella parte della spiritualità: il fatto che si cerchi di raggiungere il divino. Questo genere di approfondimenti si è anche manifestato nel mettere in musica il poema “L'Oscura Notte dell'Anima” di San Giovanni della Croce e su come si riferisse metaforicamente a Dio come se si trattasse di una relazione tra amanti. Fu un'esperienza molto ricca in termini di viaggi, in Spagna e in Marocco...
C'era molto misticismo, come negli scritti gnostici e via dicendo...
Sì, sì! Sai, le religioni sono tristemente diventate in certi modi e certi periodi qualcosa di molto politico. E quella politicizzazione ha creato, come ben sappiamo, dei problemi seri. Ma comunque non si trattava di essere intrappolati o voler approfondire la politica, quanto piuttosto della genuina, pura esplorazione di come raggiungiamo, tramite la nostra anima, un luogo di bontà e di divinità. In un modo che ci rende interconnessi al resto del mondo: credo che quello che in anni recenti è stato molto interessante per me – entrando più in contatto con le comunità indigene qui in Canada – sia aver iniziato ad apprezzare la loro visione del mondo. Che è un'altra versione della spiritualità, molto integrata con il mondo naturale e con il rispetto nei suoi confronti.
Come descriveresti, invece, il sound e l'atmosfera di “The Road Back Home”? Come hai già detto, “casa” non è solo il posto dove una persona vive...
Sì, questa sensazione della casa come qualcosa in più di un edificio mi giunse quando stavo lavorando a “An Ancient Muse” tra il 2006 e il 2007. A quel tempo stavo facendo riflessioni sui popoli più nomadi che si muovevano qua e là: sono le comunità di persone, i rituali, le abitudini, le tradizioni che formano la tua cultura. Può essere il lavarsi, il fare un certo pasto insieme, suonare musica insieme. Questa sensazione di “casa” è quello che i greci chiamavano agorà: lo stare insieme per discutere di faccende di interesse comune. Credo che in questi tempi che stiamo vivendo sia qualcosa di molto importante, date le nostre vite solitarie con i nostri apparecchi e via dicendo. “Casa”, per me, è sempre stato qualcosa di molto di più che una struttura fisica e quelle persone, quelle abitudini, quei rituali formano la vita quotidiana, settimanale, mensile e annuale. E includono cose come il suonare musica, per esempio: uno dei periodi più formativi per me è stato quello in cui vivevo a Winnipeg, nel bel mezzo delle praterie canadesi. Frequentavo un folk-club il sabato sera, dove andavamo per imparare tutta questa musica celtica: condividevamo album, suonavamo strumenti diversi e in un certo modo a quel tempo era parte di ciò che sentivo come “casa”. Una volta che venni introdotta alla storia dei Celti e che iniziai a seguire la storia celtica per tutta Europa, in Turchia, Grecia, Mongolia, Cina, Russia... Beh, tutto quel viaggio fu davvero ricco ma queste registrazioni mi riportano a quel folk-club a Winnipeg a fine anni Settanta. Quando penso alla grafica della copertina, le montagne rappresentano il viaggio celtico attraverso tutti quei posti e poi partendo dalla cima e scendendo per la via tortuosa, si giunge a queste casette raggruppate e alle persone, dove si consuma quel rituale.
È nota la tua passione per le "radici" folk irlandesi. Di recente ci hanno lasciato due istituzioni della musica irlandese come Shane MacGowan e Sinéad O'Connor. Ci puoi dare un tuo ricordo di loro?
Beh, ho ascoltato la loro musica davvero in minima parte, ma ci sono un paio di cose che davvero mi hanno colpito: la profondità della loro passione e l'originalità con la quale si esibivano. Erano davvero attaccati in modo profondo... Voglio dire, non era semplicemente una cosa legata alla passione, la loro intera espressione sembrava essere molto attaccata alla loro essenza. E hanno preso qualcosa della musica celtica, la “celticità” della musica, conducendola in una direzione molto distinta.
L'arpa è uno dei tuoi strumenti d'elezione. Di recente ci sono state importanti musiciste che hanno rispolverato la nobiltà di questo strumento, da Joanna Newsom a Mary Lattimore. Cosa rappresenta per te l'arpa e chi sono, a tuo parere, i migliori interpreti attuali di questo strumento?
Beh, prima di tutto la mia totale attrazione per l'arpa nacque alla fine degli anni Settanta, quando sentii una registrazione – grazie a quel club di musica folk – di Alan Stivell, l'arpista originario della Bretagna, in Francia. Ascoltai il disco “Renaissance Of The Celtic Harp” e poi quello intitolato “Live In Dublin”, con vari musicisti e strumenti. Filosoficamente o accademicamente, l'arpa è associata alla tradizione dei bardi. I bardi erano i media di allora: nella cultura celtica erano incaricati di catturare la storia e i racconti e andando in giro, come già sappiamo dalla televisione e da Internet, hanno avuto un ruolo significativo nel connettere le persone condividendo vicende importanti e la storia stessa. Dunque, sento, in un certo modo, di stare seguendo una parte molto contemporanea di questa missione. Per il resto, onestamente mi vergogno a dire che non ho familiarità con altri arpisti: dovrei ma non è così, credo che sia il risultato dell'essere manager della mia carriera! Credo di passare il 70% per faccende amministrative e non ascolto musica (ride): non ho davvero idea di chi altri suoni l'arpa!
Quali fonti suggeriresti alle giovani generazioni interessate ad approfondire la musica e la cultura celtiche?
Allora, le band che ho trovato molto formative non sono tutte ancora insieme, di questi tempi. E così come per gli arpisti, non sono così sicura di quali siano gli altri gruppi… ma sono sicura che ce ne siano molti. Però chi mi ha particolarmente influenzato sono stati i Bothy Band, i Planxty, gli Steeleye Span, che però erano inglesi... Ho già menzionato Alan Stivell... Davey Spillane, che è un grande suonatore di cornamusa, i Chieftains ovviamente sono immensi per me ma, come dicevo prima, nessuna di queste persone o gruppi sono ancora con noi. Ma le registrazioni sì!
Quali sono le tue attività principali, oggi, al di fuori dell'ambito musicale? Per esempio il Falstaff Family Center...
Sì, dunque, ci sono state un po' di imprese in ambito “civile”, come le chiamo. Il Falstaff Family Center è dove mi trovo ora, al piano superiore, seduta nel mio ufficio: ho comprato questo edificio nell'anno 2000 e l'ho trasformato in un centro per famiglie. Non ci occupiamo in modo particolare di programmazione, piuttosto ospitiamo e curiamo gruppi e agenzie focalizzate su bambini e famiglie. Al piano di sotto abbiamo delle associazioni multiculturali, siamo connessi con le comunità indigene che hanno il loro Medicine Wheel Garden qui... Questo è il Falstaff Family Center. Nel 1998 ho anche creato una fondazione dedicata alla sicurezza in acqua, chiamata Cook-Rees Memorial Fund For Water Search And Safety: abbiamo raccolto tra i tre e i quattro milioni di dollari a tale scopo. Questa iniziativa fu anche una conseguenza della morte del mio fidanzato durante un incidente nautico nel 1998. Indosso anche il berretto di colonnello onorario dell'aviazione reale canadese, dunque sono una civile nell'esercito canadese. Questo ruolo terminerà l'anno prossimo, ma il mio compito è essere un ponte tra la vita militare e quella civile, per aiutare le famiglie che si spostano e per parlare dell'importanza della democrazia, che diamo sempre per scontata. Poi sono stata coinvolta in alcune battaglie civili qui a Stratford, una delle quali per la fabbrica del vetro durante il Covid, fortunatamente l'abbiamo vinta! Dunque sono coinvolta in molte cose al di fuori della mia carriera musicale.
Infine, cosa possono aspettarsi i fan da te una volta finito il tour? Qualcosa in termini di registrazioni?
Beh, sicuramente ci sto pensando! Qualche anno fa sono stata a Rajasthan, in India, per esplorare le prime connessioni orientali coi Celti. Si è trattato di un esercizio di ricerca molto ricco. Mi piacerebbe fare qualcosa là, con quel materiale... Inoltre, come dicevo prima, ho molti contatti con le persone indigene qui in Canada: ho imparato davvero tante cose ricche e importanti da loro e attraverso di loro. Ci sono vari artisti, in quelle comunità, con i quali vorrei collaborare. E sicuramente con molta altra gente in giro per il mondo, perché in Australia, Nuova Zelanda, certi posti dell'America del Sud e del Nord ci sono ancora popolazioni indigene. In Europa non così tanto... C'è così tanta ricchezza nel modo in cui vedono il mondo, credo che la gente sarebbe interessata a imparare da loro. Ma ciò non ha a che fare coi Celti, si tratterebbe di un progetto non collegato alla storia dei Celti, laddove quello di Rajasthan, in India, invece lo sarebbe.
Quale messaggio, saluto e invito a raggiungerti ai prossimi concerti manderesti al pubblico italiano?
Spero sinceramente che chiunque apprezzi la mia musica sia in grado di unirsi a noi per il The Visit Revisited tour in primavera oppure per il Mask And Mirror Tour in estate. È sempre fantastico suonare per il pubblico italiano e adoro incontrare le persone quando riesco.