Origamibiro

Origamibiro

Il volto multimediale della Natura

intervista di Matteo Meda
L'interazione fra audio e video è forse l'arte più abusata da qualche anno a questa parte, in particolar modo dai musicisti e dai video artist protagonisti di ricerche nei vari ambiti dell'elettroacustica o dell'elettronica sperimentale. Eliminare qualsiasi rapporto di dipendenza fra le due componenti: questo l'obiettivo del regista Jim Boxall, alias The Joy Of Box, del sound artist Tom Hill e del contrabbassista Andrew Tytherleigh in Origamibiro, uno dei progetti multimediali più originali degli ultimi anni, notato e lanciato dalla sempre attenta Denovali. Un intento ambizioso, centrato alla grande in pochi ma ottimi episodi discografici e, soprattutto, in una manciata di spettacolari performance dal vivo. Jim e Tom, rispettivamente il lato "visivo" e il fondatore del progetto stesso, hanno accettato di rispondere alle nostre domande per provare a ricostruire la genesi della loro avventura.

Prima di tutto, che significa Origamibiro?
Jim Boxall: Speriamo che possa significare qualcosa di diverso per ciascuno. Lasciamo che siano gli altri a decidere...

All'inizio era un progetto del solo Tom, vero?
J.B.: Sì, è vero, e poi si è evoluto in qualcosa che speriamo sia maggiore della somma delle sue parti...

Come si è sviluppato il tutto negli anni? Dove avete incontrato Andy e come avete deciso di coinvolgerlo? Cosa è cambiato dal suo ingresso?
J.B.: Beh, Andy è arrivato quasi subito, prima del nostro primissimo concerto. Ha ascoltato il primo disco e ci ha chiesto di entrare a far parte di Origamibiro. A quei tempi io e Tom stavamo parlando di come convertire il disco in un live set e ci è sembrata una buona cosa far unire anche lui a questo percorso. Quello era un lavoro piuttosto intimo, che risentiva molto del fatto di essere fondamentalmente un lavoro solista di Tom, per cui l'ingresso di Andy ha cambiato parecchio in termini di suono, soprattutto rispetto ai suoi strumenti (in particolare il contrabbasso) e al suo amore per la manipolazione di suoni. Nel periodo successivo al nostro primo concerto abbiamo suonato un sacco dal vivo, e siamo riusciti a integrare sempre meglio gli approcci di ciascuno di noi, nonché la musica e le immagini. Quel processo non si è mai propriamente fermato, e ora è parte integrante di quando lavoriamo a un set: siamo sempre pronti a riordinare, rivedere e rielaborare quel che facciamo, così da mantenerlo fresco, come se ricominciassimo sempre da capo.

Qual è il percorso che vi ha portato a "Odham's Standard"?
J.B.: Per un periodo di tempo mi sono dedicato a studiare dei trattati, e un giorno mi sono imbattuto in un libro riguardante le fotografie sugli spiriti che mi ha entusiasmato un sacco. C'è un'atmosfera particolare in questo tipo di foto, un contrasto fra la loro natura di immagini amatoriali e la crudezza delle rappresentazioni di questi presunti spiriti. Mi sembrarono incredibilmente vicine, tangibili a livello emozionale, e così trasparenti nella loro costruzione. In origine non erano state create per ragioni estetiche, ma solo come degli oggetti in grado di stabilire un collegamento con le persone scomparse, facilitando così un'esigenza impossibile da realizzare. Secondo me, c'è qualcosa di fondamentale e inversalmente cinematografico in tutto questo, che ho pensato si sarebbe adattato bene alle nostre performance. Non sapevo, in realtà, che anche Tom si stesse interessando alle registrazioni EVP, e quando l'ho scoperto abbiamo subito capito che poteva essere una direzione interessante per il nuovo disco.

Ho notato che da "Shakkei" avete iniziato a introdurre degli elementi nuovi: in "Cracked Mirorr And Stopped Clocks" si trattava quasi solo di costruzioni elettroacustiche, poi sono arrivati gli archi... In "Odham's Standard" ne avete usati un sacco, hanno un ruolo quasi più importante dell'elettronica! Come potete spiegare questo cambiamento progressivo?
Tom Hill: Semplicemente è bello provare cose che non si sono mai provate prima, ogni territorio ignoto è qualcosa di divertente. Specialmente dove ci sono sfide da vincere o limiti da superare. Il novanta per cento delle parti d'archi in "Shakkei" in realtà sono fatte con la chitarra elettrica suonata con l'arco: è stato eccitante vedere cosa si sarebbe potuto fare usandola così al posto del violino o del violoncello. A volte si riconosce che non è un suono d'arco tradizionale, ma ci sta bene, è diventato qualcosa che fa storia a sè. In "Odham's Standard" in realtà c'è più che altro il basso di Andy utilizzato alla stessa maniera. Non è un segreto che nessuno di noi abbia uno studio gigante con troppi strumenti, quindi ci dobbiamo arrangiare con quel che abbiamo, farli arrivare il più lontano possibile, sfruttarli in tutte le loro potenzialità. Di nuovo, è parte del bello del nostro far musica, sono effettivamente felice che vada così, le sfide creative sono parte della passione.

Ma in questo disco c'è pure il pianoforte. Un bel dialogo, quasi "sinfonico", tra più strumenti, non trovi?
T.H.: Può darsi. Non è stato sicuramente progettato come tale, ma spesso è qualcosa che deve dirci la musica. Noi ci limitiamo a buttar giù qualche schizzo, poi ci fermiamo e aspettiamo che siano le idee stesse a dirci di cosa hanno bisogno per farle funzionare.

L'elettronica è ancora una parte importante della vostra musica?
T.H.: Proviamo sempre a far sì che la tecnologia non prenda il sopravvento. Alla fine si tratta spesso di capire quando un particolare strumento è necessario e quando invece se ne può fare a meno. Deve rimanere sempre qualcosa al servizio della musica e non che arrivi a indicare la via. Dipende dalle circostanze, ma alla fine le idee vengono prima, poi semmai ci sono gli strumenti necessari a realizzarle. Mi mancherebbero questi aspetti della musica elettronica se non ci fossero, ma mi mancherebbe altrettanto sedermi e suonare la chitarra classica se non potessi più farlo.

Cosa rappresenta la natura per voi? Sembra essere una fonte di ispirazione importante, specie per quanto usate i field recordings!
T.H.: Quando il lavoro per "Shakkei" era alle primissime fasi, stavo leggendo libri come "The Soundscape" di R. Murray Schafer, "Haunted Weather" di David Toop e "The Great Animal Orchestra" di Bernie Krausse... Di lì a poco mi sono munito di un registratore portatile e ho iniziato a recuperare all'esterno i campioni da usare nei pezzi. Non sono mai stato interessato a realizzare musica chiudendomi in studio, ho sempre preferito creare atmosfere autentiche, quindi è stato bello portare "l'esterno all'interno". Forse è stato proprio il tema più importante di "Shakkei".

Credo che uno degli aspetti più interessanti del vostro progetto sia il contatto con la realtà: la vostra musica si basa su principi astratti, ma resta sempre - tramite i field recording o più in generale le atmosfere - legata alle immagini, alla natura, al reale. Avviene per caso o è un approccio cercato e voluto?
J.B.: Suppongo che fin dall'inizio ci sia stato un legame tra Origamibiro e le cose fisiche e tangibili, che fossero gli strumenti, lo spazio, i respiri, i fenomeni, eccetera... Non credo si sia mai trattato di un approccio cercato, ma più di un qualcosa che ci accomunava e interessava tutti. Nessuno sa cosa potremmo fare una prossima volta o che direzioni potremmo mai prendere.

Ciascun vostro brano è un po' come una foto: alcune più vecchie in bianco e nero, altre recenti e dettagliatissime, con soggetti comunque sempre diversi... Fate mai attenzione alle immagini che un brano può rappresentare?
J.B.: Dal mio punto di vista è fantastico che la musica si colleghi in maniera così diretta alle immagini, questo rende il mio lavoro molto più facile! Ma in realtà tutto dipende da dove arrivano le idee. Interessante è il fatto che tu abbia parlato di foto, Tom ne aveva parecchie appesa al muro in studio mentre lavoravamo a "Odham's Standard", ma erano più fonti da cui attingere che soggetti centrali. Comunque, il bello della musica strumentale è la sua potenziale ambiguità, e la capacità che ha di riflettere ciò a cui ogni singolo ascoltatore vuole associarla. Va anche detto che credo sia rischioso che la musica sia legata in maniera dipendente alle immagini, perché questo potrebbe limitarne il margine d'azione. Serve trovare una sorta di equilibrio.

Come gestite l'interazione tra musica e video?
J.B.: Come abbiamo detto, il nostro lavoro in origine era nato dal tentativo di condurre la musica dallo studio allo sviluppo live, e col tempo quest'interazione ha assunto più sfaccettature. Su "Shakkei" Tom ha lavorato alla musica partendo da un filmato che avevo girato in Bulgaria, che ha poi modificato con alcuni pezzi di un'altra registrazione sua girata in Inghilterra. Il risultato fu una sorta di parallelo ritmico e spaziale, come se stessimo camminando insieme in due posti diversi seguendo la stessa musica. Per "Odham's Standard" Tom mi ha passato del materiale sonoro su cui stava lavorando e io l'ho trasferito su una videocassetta e ho poi continuato a copiare fino a fare a pezzi il nastro. Lui a quel punto ha ritrasferito quel che era rimasto in formato audio per avere una forma diversa di ciò a cui stava lavorando. "Feathered", uno dei miei brani preferiti dal disco, è nato quasi esclusivamente all'interno di questo processo, "Butterfly Jar" invece è costruita attorno al sample del suono di un giocattolo che usavamo dal vivo. A livello di performance, interazione è una bella parola perché cerchiamo sempre di perfezionare e riconfigurare quel che facciamo. Le idee possono cambiare o evolversi, sparire e riapparire anche solo da un discorso fatto molto tempo prima ma che non era mai stato particolarmente rilevante fino a quel momento.

Il vostro primo lavoro uscì per la Expanding di Benge! Che vi ricordate di quei tempi? Avete mai avuto modo di vedere la sua collezione di meraviglie analogiche?
T.H.: Expanding ha un gran bel gruppo di artisti nel suo catalogo. Conoscevo già Leigh (Flotel, ndr), viveva giusto dietro l'angolo della via di casa mia: l'etichetta l'ho scoperta così. Ma ho un rapporto abbastanza stretto anche con altri artisti come Orla Wren, i cui artwork mi hanno ispirato parecchio per la loro natura organica. Però, solo quando sono andato in studio da Benge ho capito a che punto arrivasse la sua ossessione analogica. Non credo di avere mai visto tanti Moog e synth modulari in vita mia, è una sorta di museo. E quando li usa è davvero un mago, è bello sapere che hanno un padrone così amorevole.

L'arrivo a Denovali ha segnato un momento decisamente importante per voi. Come siete entrati in contatto con loro e cosa pensate delle cose che stanno facendo?
J.B.: In realtà sono loro ad aver cercato noi, in maniera piuttosto fortuita. Stavamo cercando una nuova etichetta perché volevamo andare più avanti rispetto a quanto Expanding poteva offrirci all'epoca. Ho incontrato i ragazzi di Denovali durante il primo dei loro Swingfest a Londra e mi hanno subito fatto un'ottima impressione, concentrati e professionali ma al tempo stesso simpatici e disponibili. Sapevano quel che stavamo facendo e dove volevamo andare, per questo è stato un po' come arrivare a casa propria.
T.H.: Conoscevamo già i Piano Interrupted prima di firmare con Denovali. Avevamo suonato con loro a Londra parecchi anni prima, per questo abbiamo voluto seguirli firmando con l'etichetta. Denovali è fantastica, non ho mai conosciuto un'etichetta in grado di dedicare così tanto tempo ed attenzione per essere sicuri che ciascun artista abbia la giusta piattaforma creativa e il livello di esposizione che merita per il suo lavoro. Si prendono letteralmente cura di te. Noi siamo solo all'inizio del nostro viaggio con loro, ma ci sono tutti i presupposti perché sia decisamente lungo.

Sono sicuro che sarete stati molto soddisfatti dell'attenzione che mettono nel disegnare gli artwork, sbaglio?
T.H.: Anche su questo siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Laddove l'artwork viene concepito, ha subito un'importante connessione con la musica per noi, datoché la segue in ogni suo momento: dalla copertina del disco alla performance live, passando per l'ispirazione in studio. Siamo felici di avere la libertà di poter realizzare al meglio anche questi aspetti.
J.B.: Sì, è stato grande il modo in cui hanno lavorato agli artwork dei nostri vecchi lavori, specialmente a quello della versione in vinile del box set "Collection": quell'immagina è composta da una serie di slide di 35 millimetri sovrapposte. Abbiamo in progetto parecchie altre cover realizzate con oggetti inusuali.

Pensi che il live sia la dimensione migliore per far interagire la musica e gli elementi visivi?
J.B.: Beh, se non lo pensassimo non saremmo qui. Se tutto va come deve, allora il live può essere sinonimo di tanto divertimento e soddisfazione. Durante le performance puoi fare cose che non puoi permetterti in studio, come per esempio sincronizzare tutto, far andare musica e visuals in parallelo. Comunque sia, ho imparato col tempo che è molto più bello fare in modo che più elementi possano intrecciarsi mantenendo la loro unità che cercare a tutti i costi di trasformali in un tutt'uno. In questo modo, diventa difficile per chi non ha già sperimentato un determinato set prevedere cosa accadrà. Al momento stiamo lavorando su un nuovo progetto video, che vedrà la luce probabilmente ad agosto, e mi piacerebbe continuare a girare sempre più video, magari in alta risoluzione.

Avete mai suonato in Italia? Nel caso non so quanto sia stato soddisfacente visto che il pubblico è spesso rumorosissimo, ma spero torniate presto!
J.B.: Yes please! (ride) Ho suonato a Milano qualche anno fa in un festival per VJ, ma mai con Origamibiro. Fino a quando la gente apprezza quel che facciamo e si diverte a noi va benissimo. Quanto al suonare da voi, vedremo di cogliere al volo la prima occasione che si manifesti!
Discografia
 

ORIGAMIBIRO (CD & LP)

  

Cracked Mirror And Stopped Clocks (Expanding, 2007)

Shakkei (Abandon Building/Denizen, 2011)
 Shakkei Remixed (remix, Abandon Building/Denizen, 2012)
Collection (raccolta, Denovali, 2013)
 Odham's Standard (Denovali, 2014)
  
 

PENFOLD PLUM
(Tom Hill)

  
 
Scribbled I Infant (Wichita, 2001)
  
 WAUVENFOLD
(Tom Hill & Noel Murphy)
  
 CD/LP
  
 3 Fold
  
 EP/12"
  
 Crisp Little Digit (Wichita, 2001)
 On The Blink (Wichita, 2001)
 Splinter Switch (Wichita, 2002)
  
 
(Andrew Tytherleigh)
  
 Interiors (Repap, 2003)
  
 SCHMOOV! (CD/LP - discografia parziale)
(John Buckby, Andre Bonsor, Owen Rowe and Andrew Tytherleigh)
  
 While You Wait (DiY, 2001)
pietra miliare di OndaRock
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