TOKYO - Tutto accade nel Giappone dei nostri giorni, la grande "Balena Gialla", come spesso chiamano questo paese i giornalisti europei. Tre premier in meno di una legislatura: Abe Shinzō, nipote e mediocre erede di un presunto criminale di guerra, la testa di legno Fukuda Yasuo, capitolato tentando di salvare il salvabile, fino all’ultimo exploit del Jimintō (i liberal-democratici ormai al potere, ufficialmente, da un decennio e più) con l’uomo del rinnovamento, la tigre di carta, Aso Tarō. Economia selvaggia, problemi con i vicini (Cina, Corea e Corea del Nord), fedeltà cieca all’America; e poi, una delle industrie discografiche, nonostante la crisi e il caro cd, più produttive e più attive al mondo, una macchina da mezzo miliardo di yen all’anno. Super produzioni, scene locali che fanno impallidire anche l’establishment americano: Visual Kei, Kabuki Rock, cantanti neri che si danno all’enka, ibridazioni tra musica locale e rap, r’n’b, techno eccetera eccetera. In questo clima sociale, economico e (anti) culturale nascono e prosperano i Polysics: figli del proprio tempo, come loto sulla melma, Siddhartha sotto il cobra... ma non è tutto oro quel che luccica.
Seguitissimi in Giappone, vengono lanciati ora, al loro ottavo album per una major (Kyūn Rekōdo – Sony) anche in Europa: "al di là dei propri mari", kaigai (come chiamano da queste parti una terra che non è il Giappone) nei paesi dei gaijin (gli "uomini di fuori", i "non giapponesi").
Produci-consuma-crepa: la velocità con la quale l’industria discografica (ma non solo; giapponese e non, ma non solo) sembra fagocitare se stessa è sbalorditiva. Oggi ci sei, guadagni e fai guadagnare e domani non ci sei più; riciclabile la tua discutibile bella presenza, buona in qualche film o sceneggiato nazional-popolare (per un pubblico soprattutto di scatenate attempate e lolite) o meglio ancora presenza fissa in qualche programma di prima serata, alla tv, accanto ad altri famosi "talento" (come chiamano qui, usando un termine in origine straniero divenuto ormai familiare, i presenzialisti tv) tra ottuagenarie starlet imbalsamate, veline e imbolsite controparti maschili.
I Polysics sono le scorie molto "radio" (in senso di attitudine: radiofonici, propensi alla massa come ci spiegano anche loro) e poco "attive" di questo luccicante mondo televisivo, fatto di cellulari, gioventù bruciata a un appuntamento sotto la statua del cane a Shibuya, paillette e antichi gara (vedi il nuovo mondo Visual e i suoi personaggi di cartapesta: da Miyavi ai Kagrra), umanizzazione del disumano, pubblicità di centrali nucleari alla tv, Ishida Tetsuya e Yamaguchi Akira (no, forse di più l’esageratamente celebrato Murakami Takashi). Né più né meno stessa materia. Ed è per questo che, almeno in principio, li si accostava, più nell’immaginario e per l’immagine, diciamo pure in questo secondo caso ridicola e in quanto tale trascurabile, che per il suono – concettualmente - ai Devo. Se questa teoria fosse convincente e genuina, come candidamente i Polysics tentano in ogni modo di convincerci di lavoro in lavoro, ci troveremmo forse di fronte a una interessante mutazione della profetizzata Devo-luzione del celebre combo di Akron.
Entriamo quindi nell’aspetto più strettamente estetico della loro musica e osserviamo insieme a Hayashi (leader della band che abbiamo raggiunto per mail) lo sviluppo/devoluzione di questo importante progetto del Giappone di oggi, una delle nuove vacche sacre dello star-system giapponese.
E' uscito qualche mese fa in Giappone il vostro ultimo album "We Ate The Machine" e ora un vostro tour abbastanza impegnativo (tredici date, tra cui Londra, Porto e Roma ) ha raggiunto anche l’Europa. Che tipo di risposta vi aspettate dal pubblico non giapponese? L’Occidente è pronto ad accogliervi?
Che in molti pensino "un suono cosi non s’è mai sentito!". Questo è quello che spero, in tutto segreto, riesca ad avvenire. Chissà… non nego questa ambizione.
Parliamo del vostro ultimo disco "We Ate The Machine": suona ancora più melodico delle vostre prove precedenti e vanta una scrittura molto più "lineare" rispetto ad altri vostri cavalli di battaglia del passato. E' cambiato qualcosa nel frattempo nel vostro modo di fare musica?
Eh già, è proprio cosi. Questa volta abbiamo provato a cambiare un po’ il nostro approccio nell’ideazione dei brani. Fino a oggi, quello che in origine pensavo da solo veniva poi elaborato insieme al resto del gruppo ma poi ho cominciato a pensare che dovevamo provare a sovvertire un po’ le regole di questo ordine. Dopo quasi dieci anni ho pensato "perché non provarci, utilizzando una maniera più diretta, più viva?". E se cosi è, perché non provare lavorando da subito a due, con Fumi (al basso) di primo acchito? Mi sono reso conto di come nelle tracce elaborate da Fumi ci fosse un imprinting nelle linee melodiche e nelle ritmiche che mancava alle mie… era tempo che ragionavo su questa cosa e così abbiamo provato con Fumi questo nuovo metodo di lavoro, totalmente inedito per noi.
Il risultato: l’elaborazione di un sound molto più diretto e con attitudini smaccatamente molto più "pop"… sono sinceramente entusiasta di questo. E' un passaggio veramente importante per noi.
Kayo (tastierista e voce femminile) ha esordito nel 2004 con un mini-album solista "Mitsuami Heroine" ("L’eroina dalle belle trecce") fondamentalmente diverso per sonorità e approccio compositivo dal pop avanguardistico dei Polysics; questo ha inciso nello sviluppo della band attuale o i side-project sono soltanto una via di fuga dei Polysics dai Polysics stessi? Anche altri di voi hanno in progetto dischi solisti a breve termine?
"Mitsuami Heroine", ah sì... Voglio continuare a pensare che questa sia una cosa completamente staccata dai Polysics. Era impossibile sviluppare una forma-canzone di questo di questo tipo con la nostra sigla…per lei, per Kayo, è stato come realizzare un sogno...e per noi va bene così. Per quanto riguarda invece i resto dei Polysics: siamo completamente presi... vedo difficile, per ora, l’idea di progetti paralleli e lavori solisti.
Parliamo dei Polysics: inutile negare i vostri "numi tutelari", i Devo. Chiaramente non solo nella forma, ma anche nei contenuti. Perché i Devo?
Fino a un certo punto il rock è stato tutto uguale: capelli lunghi, orecchini, teschi, satanassi e via dicendo… o questa è la mia impressione. Per noi era difficile riconoscersi in questo mondo che tutti chiamavano "il rock". Al di fuori c’era dell’altro, molto anche di interessante, ma sempre tra progetti più strettamente pop-oriented, per capirci.
Ma i Devo… qualcosa di completamente diverso.
A una prima occhiata, dei tipi, da un punto di vista esteticamente rock, decisamente poco convincenti; capelli corti, facce da sfigati e con un cantante occhialuto e apparentemente con zero appeal.
Certamente non c'entra niente l’impatto estetico totalmente "out" dei cinque in questione sul discorso più strettamente musicale, o meglio non solo... Ricordo bene l’istante in cui vidi per la prima volta questi strani tizi, abbigliati con un set di tute gialle, muoversi come robot fuori controllo sul palco, coperti di sudore, i loro volti, completamenti persi a eseguire "Uncontrollable Urge"… balbettai "loro… questo… questo è 'il rock'".
"Che diavolo stanno facendo" mi dissi anche, un ritmo incasinatissimo, "ma sapranno veramente quello che stanno combinando?!". Quando finalmente capii che la loro era follia allo stato puro, un brivido mi percorse la schiena, e pensai che anche io ci avrei voluto provare, con una mia band anzi "la band", le nostre tute, in piedi come loro sul nostro palco… commovente, vero?!
Siamo stati influenzati e lo siamo ancora dal loro modo di aver ideato un’arte a metà, tra tecnologia e umanità. Prima di loro non c’era nel punk!
Perché questo amore sviscerato per i Devo? Cosa vi affascina della loro musica e della loro visione dell’arte? Il salto generazionale tra loro e voi è abbastanza consistente: siete mai riusciti, ad esempio, a vederli dal vivo? Che tipo di esperienza è stata per voi?
Partiamo, come dicevamo prima, dalla loro immagine: un equilibrio perfetto tra essenza più fisica, umana e un aspetto robotico, artificiale... ti faccio qualche esempio. Ogni particolare del loro apparire, dalle copertine dei loro dischi, alle loro esibizioni, fino al loro senso estetico in toto, dimostra e rimane sempre, impeccabilmente e semplicemente unico... dimostrami il contrario! I loro live? perfetti. Il modo di riadattare i loro brani dal vivo (per non parlare delle cover!), il loro essere animali da palco in ogni situazione.
Dopo trent’anni ritornano dal vivo, con lo stesso "campionario" e lo stesso baraccone, e che cosa hanno perso? Neanche un grammo del loro carisma! Quando sono tornati in Giappone per i loro tour del 2003 li ho visti in concerto... e ho capito esattamente quello che ti dicevo prima, eccezionali. E' in quei momenti che ho fortificato ancor più questa mia sorta di fede e alimentato il desiderio di spingere, al limite delle forze, il mio progetto.
E ora che avete raggiunto una certa notorietà, siete riusciti mai a incontrarli direttamente?
Ho avuto modo di incontrare molte volte i Devo. Alcuni di loro sono venuti spesso ai nostri concerti in America e siamo diventati amici. Questa estate, poi, i Polysics hanno aperto la data unica dei Devo in Giappone. In quell’occasione il mio sogno di suonare insieme a loro è diventato realtà.
Oltre ai Devo, quale altro artista vi ha influenzato in particolare? Non mi riferisco solo alla musica, ma parlo delle arti in genere…
Ti posso citare il grandissimo, secondo noi, ma non soltanto, Okamoto Tarō; chiedi a chiunque di lui e ti diranno le stesse cose con lo stesso entusiasmo… credo che sia un artista di una enorme importanza, non solo per noi...
Dove vogliono arrivare i Polysics?
Fare un singolo da chart che ci fa volare e schiantare tra le hit spostando completamente gli ingranaggi della sensibilità degli ascoltatori medi del cosiddetto genere "rock".
Avete suonato anche fuori dal Giappone e l’ultimo vostro tour ha toccato anche l’Europa. Dove avete trovato un'atmosfera più o meno preparata al vostro arrivo, nei vostri confronti e rispetto alla musica giapponese nel suo intero?
Sicuramente in America e in Germania.
Dove ci hanno anche stampato e distribuito. (ride)
Più in generale che risposta avete avuto dal pubblico non giapponese? Come è andata in Italia?
Devo dire bene, sempre. In particolare in Francia, ovunque ci siamo trovati a suonare.
In Italia… mmm… credo bene. Però ho avuto l’impressione che ancora non ci fosse un’idea chiara di che cosa siamo… Mi spiego meglio: a Roma, in particolare, ho avuto l’impressione che ci abbiano preso per una delle tante band della scena visual… la cosa mi ha un po’ rattristato proprio perché mi sento di dire che non apparteniamo proprio ad alcuna scena e spero di essere riuscito a trasmettere questa cosa alle persone, in Europa dove mi sembra ci sia, nel mondo della musica soprattutto, una forte propensione all’originalità e all’unicità. Chi ci ha visto forse riuscirà a capire il mio discorso… per chi ancora non è stato mai ai nostri concerti, non posso far altro che augurami che prima o poi abbia l’occasione di venirci a vedere… assolutamente!
Qual è al momento il disco o la canzone che vi rappresenta al meglio?
Assolutamente "Now Is The Time" (dall’album omonimo del 2005-2006) e "We Ate The Machine" (dall’ultimo disco uscito quest'anno). "Now Is The Time" è il primo album realizzato con la formazione attuale. E' con questo disco che abbiamo definito più stabilmente il nostro suono, il nostro carattere come band... e anche perché la sua promozione è stata per noi il nostro primo balzo verso l’esterno, al di fuori del Giappone. Uno dei principale punti di arrivo, e di non ritorno, del nostro percorso.
Che ne pensate della musica in Giappone, oggi? Ci sono dei punti di riferimento, dei nomi interessanti e come vedete invece la situazione nel resto del mondo?
A mio modesto parere, se confrontiamo la scena rock giapponese attuale a quella di dieci anni fa, riscontriamo un notevole aumento di progetti interessanti. Tuttavia c’è troppa poca originalità tra progetto e progetto. Chi e che cosa rimane invece dei nomi in circolazione dieci anni fa, non saprei proprio cosa risponderti... fuori del Giappone non credi che sia forse la stessa cosa?
Ho sentito che hai messo su i Polysics ai tempi del liceo, nel 1997. E' vero questo? Ci puoi raccontare quel periodo? Come è nato il progetto e che idee avevate all’inizio. E' cambiato molto da allora nei Polysics?
Certo che è vero! Al tempo avevo in testa sempre la stessa idea, che poi è quella che ti accennavo prima, ovvero mettere su una band, molto techno e molto pop, nella quale interagisse il suono sparato a volumi incontrollati della chitarra… Caratteristiche non negoziabili, che sarebbero state l’imprintig del gruppo sin dall’inizio, senza se e senza ma. E allora ho pensato anche che in questo contesto il suono vivo di una batteria, una batteria vera, avrebbe completato il tutto e questa scelta sarebbe potuta poi diventare una delle particolarità del mio gruppo. Sin dall’inizio è stato cosi e non mi sembra sia cambiato molto di noi da allora.
Vi considerano in molti il gruppo di punta della cosiddetta scena new-new wave di Tokyo, una sorta di quelli che furono al tempo alcuni gruppi come i Friction o certi progetti di etichette come la Pass Records. Come vi sembra questa definizione? Vi ci riconoscete? Che cos’è e che cosa significa realmente secondo voi questa scena? Quali sarebbero gli altri progetti che come voi apparterrebbero a questa realtà?
Mmm... I Friction me li ricordo bene... I Polysics, senza pensare proprio a nulla o rispondendo a chissà quale dovere nei confronti di chissà quale scena, come ce la indichi tu, producono musica divertendosi e rivolgendo il loro sentire e fare musica in modo diretto al loro ascoltatore occasionale o non. Sarebbe poi certamente bello capire chi sono questi ascoltatori con i quali abbiamo fatto centro. Se esiste una (non) scena di questo tipo vi apparteniamo... altrimenti... non credo proprio di essere collega di nessuno.
(Con la collaborazione di Kosuke Harada)