Primi italiani a firmare per un'etichetta statunitense, primi italiani ospiti alle John Peel Sessions, primi italiani a suonare al prestigioso festival All Tomorrow's Parties.
Gli Uzeda, ora come ora, non sono pionieri o mosche bianche, ma, semplicemente, una vera e propria istituzione.
In occasione dell'uscita del loro nuovo lavoro, "Stella", siamo riusciti a scambiare quattro chiacchiere con Giovanna Cacciola, voce solista della formazione.
Oh Giovanna, sono felicissima di parlare con te. Vi ho conosciuti guardando "Indies" in televisione e vi seguo da allora.
Mamma mia, un bel po' di tempo fa! (si parla dei primi anni Novanta).
Eh sì. Infatti nel momento in cui ho saputo che stava uscendo "Stella", ho rischiato di non crederci. Mi avete fatto aspettare otto lunghissimi anni. Otto anni sono tanti!
Sì, otto anni sono tanti. C'è stato un fermo biologico, (sorride) nel senso che avevamo proprio bisogno di allontanarci l'uno dall'altro: abbiamo suonato insieme, condiviso tantissimo tempo degli ultimi dodici anni, quindi sentivamo l'esigenza di allontanarci per un pochino. Era tutto troppo vicino, tutto troppo condiviso. Abbiamo preferito fermarci e lasciare che il tempo ci dicesse quando era il momento di ricominciare.
Quindi non avete mai pensato di sciogliervi.
(molto decisa) No, mai. Mai pensato e mai detto. Tante volte, quando abbiamo cominciato anche l'avventura con Bellini (side-project di Giovanna e Agostino Tilotta) e anche dopo qualche tempo che non facevamo niente, a chi ci chiedeva se ci eravamo divisi, rispondevamo: "No, siamo fermi." Non ci siamo mai separati. Infatti, quando abbiamo ripreso, è stato molto naturale perché non c'era stato uno scioglimento.
"Stella" è uscito per il mercato estero da poco più di un mese. È presto per sapere come sta andando?
Di solito ci fanno il resoconto dopo sei mesi, ma posso dirti qual è stato il feedback negli Stati Uniti con il tour ed è stato ottimo. Credo stia andando parecchio bene anche perché al festival della Touch & Go (organizzato per i venticinque anni d'attività dell'etichetta) abbiamo avuto un fortissimo riscontro anche sul disco.
Non so qui in Italia, perché il disco è uscito da poco.
Noi siamo comunque contenti perché quello che abbiamo fatto ci piace. Se piace anche agli altri siamo ancora più contenti. Se non piace, non possiamo, chiaramente, in nessun modo, né obbligare, né fare nulla affinché piaccia.
Mi hai portato alla prossima domanda: che effetto fa essere più nota all'estero che in patria?
Mah… Non lo so? (sorride) Non so se siamo più noti all'estero che in Italia.
Di sicuro gli Stati Uniti sono una terra molto estesa e proporzionalmente, forse, siamo più noti lì che qui, però non te lo so dire. Davvero, non ho la percezione di dove siamo più noti anche perché, fino agli ultimi concerti che abbiamo fatto in Italia, il riscontro c'era, la gente veniva.
Certo, ci fa effetto arrivare in un posto e vedere che la gente ci conosce anche se non ci siamo mai andati a suonare. Ecco, questo sì, questo ci fa piacere, chiaramente, e ci fa pensare.
Ti dirò, sono tornata un paio di settimane fa da Tokyo e il primo disco che ho visto entrando da Disk Union è stato "Stella".
Guarda, il Giappone è stata la grande sorpresa di cui ti dicevo: vedere la gente venire ai concerti di Bellini che già conosceva il disco, conosceva il gruppo e la musica, per noi era strabiliante. Ma non solo! Si portavano dietro i dischi di Uzeda, quindi per noi era ancora più sorprendente perché era proprio inaspettato! Avendo anche altre attività, spesso non abbiamo idea se siamo conosciuti in un posto oppure no.
Torniamo al festival della Touch & Go. Mi domando se ci sia una sorta di curiosità da parte di artisti statunitensi nei confronti di un gruppo italiano che, comunque, ha un suono molto internazionale.
Ritengo che la musica non abbia confini e che quando tu usi un linguaggio musicale che nasce in un posto, una volta che si diffonde altrove, chiunque ne fa proprio bagaglio, in grado di usarlo come vuole. Non credo che ci siano grandissime differenze, soprattutto quando sei impegnata a fare quello che vuoi, quello che vuoi esprimere e basta.
Non so se siamo un gruppo internazionale. Siamo un gruppo che fa musica elettrica, come tantissimi altri gruppi sulla faccia della Terra. Non credo che ci siano, ormai, più confini, soprattutto se non te li metti tu in testa, questi confini.
Quindi, quella stampa che, riferita ai gruppi italiani che stanno avendo successo all'estero - come Zu , Disco Drive , Yuppie Flu , Julie's Haircut - parla di "nuova scena indie italiana" fa ridere i polli.
Viene data spesso un'etichetta o fatta una definizione, mi rendo conto, per semplificare, per spiegare un po' di cosa si tratta, ma spesso finisce per essere un limite per chi fruisce della musica, e chi legge finisce per avere le idee più confuse. Poi, magari, più che essere interessato a vedere il gruppo dal vivo - dove realmente può capire che cosa fa una band e se si è interessati a seguire quello che fa - si finisce per rimanere dietro le righe o dietro quello che si è letto o quello che si è sentito dire, solo perché è stata data un'etichetta che magari non corrisponde alle intenzioni di chi sta suonando, che sono, invece, le intenzioni più importanti.
Io credo che tutte queste band stiano impegnandosi a sviluppare le proprie intenzioni musicali e ognuno metta tantissime energie e tantissimo impegno in questo.
Abitiamo tutti in Italia e quindi, ovviamente, italiani siamo, ma parlare di una "scena indie italiana" complica, secondo me, tantissimo le cose: le confonde e può anche non portare una positività verso chi fruisce della musica.
Torniamo agli Uzeda. In vent'anni di carriera, come siete riusciti a mantenere un suono così riconoscibile, a non farvi mai influenzare da altri generi o altre mode?
Ma, guarda, non siamo ragazzini e non lo eravamo neanche quando abbiamo cominciato, eravamo già persone mature. Adesso lo siamo ancor di più, chiaramente, e... non è che non ci facciamo influenzare, è che abbiamo così poco tempo per occuparci di quello che amiamo che non c'è proprio il tempo: c'è solo l'impegno, la volontà, il desiderio e se non facciamo quello che ci soddisfa, non siamo contenti: quando suoniamo insieme siamo più occupati o preoccupati ad esprimere ognuno di noi quello che vuole, piuttosto che parlare, mettersi d'accordo su quale filone seguire, quale linea, quale moda. Non c'è questo tempo, la cosa è molto più pratica che pensata o riflettuta.
Be', ma sai, magari non è qualcosa di cosciente, non intendevo che immaginavo gli Uzeda domandarsi come convenisse suonare. Pensavo che è naturale farsi influenzare, a livello conscio o inconscio, da quello che si ascolta.
Tante cose ci influenzano a livello inconscio! Ognuno di noi segue e ama altre cose, ognuno di noi si interessa più ad alcune cose che ad altre, conseguentemente ne rimane influenzato e sono sicura che magari noi non ce ne rendiamo conto, ma chi ascolta può notare delle sfumature o degli spunti che gli ricordano altre cose. Non abbiamo mai pensato di seguire una moda piuttosto che un'altra, anche perché, come ti dicevo, non essendo noi ragazzini, ci sentiremmo ridicoli.
Ma... a distanza di vent'anni, è naturale per gli Uzeda avere un suono ancora tanto arrabbiato?
E come si fa a non esserlo?
Be', sai ... o mamma, è brutto dirlo così, però crescendo si tende ad avere un atteggiamento più pacato.
Ma noi, in un certo senso, lo siamo! Anche nella musica: secondo noi, questo disco è più tranquillo degli altri, per certi aspetti, per certe sfumature, ma non viviamo ancora tempi per i quali ci sentiamo di essere meno arrabbiati rispetto a tante cose. Il fatto di esserci abituati o di aver accettato di convivere con le difficoltà non ci ha ancora tolto la voglia di dire che sono condizioni che non ci piacciono. Che non piacciono a noi, che non ci piacciono per i nostri figli o per i nostri fratelli minori. Ognuno di noi sente ancora, dentro di sé, l'esigenza di esprimere questo. Sicuramente con più profondità di una volta, ma non ci sentiamo ancora di accettare pacatamente quello che in passato ci ha reso furiosi e che tuttora ci rende furiosi. Tieni anche presente che se in Italia le cose sono difficili, qua in Sicilia spesso sono impossibili.
"Stella". Primo titolo in italiano.
(sorride) È perché ci piace questa parola. Perché "stella" significa tante cose. Perché è inteso come nome femminile e lo stesso anche in inglese.
Data la numerosa presenza di oriundi messicani negli Stati Uniti, "stella" è una parola molto nota proprio come nome femminile, per cui ti capita spesso di spiegare cosa significa "stella".
Mentre componevamo le canzoni per questo disco, uno degli argomenti che usciva spesso fra di noi era, appunto, quello del desiderio, del sogno, del riuscire ancora a guardare incantati verso il cielo e da qui è nata l'idea di "Stella" e siamo stati tutti e quattro molto entusiasti quando abbiamo deciso di chiamare "Stella" il nuovo disco.
Ottimo. Questo ci porta alla domanda banale. Sicuramente è banale per te, ma lo è anche per me, perché mi capita ogni tanto di porla, ma ti assicuro che le risposte che ricevo sono diverse tra loro.
Perché canti in inglese?
Guarda... ehm ... Sì, questa domanda mi è sempre stata rivolta. La risposta è estremamente semplice, (sorride) forse ancora più banale della domanda: perché è molto più facile usare una lingua molto più plastica dell'italiano qual è l'inglese per seguire frasi musicali irregolari.
La motivazione è questa. Dopo tantissimi anni viene ancora più facile: con una brevissima frase puoi dire tantissime cose per dire le quali in italiano ti occorre molto più spazio. Io non sono capace a farlo, in italiano; molto umilmente non riesco proprio. Altri gruppi, altre persone, compongono in italiano, ne sono capaci. Io non ci riesco, quindi continuo a fare quello che mi sento più in grado di fare, piuttosto che fare male altre cose solo perché rientrano nelle aspettative di chi ritiene bisogna farle in un altro modo.
Tu, però, hai composto delle canzoni in italiano per un altro progetto, se non sbaglio.
Nnno... composto... aspetta, fammi pensare... Ho cantato delle canzoni in italiano: un po' per divertimento, un po' perché facevano parte di un progetto tedesco, ho cantato tre canzoni in italiano e ho registrato qualcosa in collaborazione con Cinzia La Fauci (cantante dei Maisie e co-fondatrice dell'etichetta Snowdonia, ndr), ma composto in italiano... composto... composto credo proprio di no, non ho mai composto in italiano.
Poi, non è detto che in futuro ci riesca. Per il momento (sorride) non ci riesco.
Molto bene. Visto che ci siamo giocate la domanda banale, ora tocca alla domanda bastarda.
Quanto, oggettivamente, nomi importanti come quelli di Steve Albini e John Peel sono stati determinanti per la notorietà del gruppo?
Sono stati importanti perché tanta gente ha bisogno di credenziali prima di ascoltare una band che non ha mai sentito.
Poi, chiaramente, se quello che ascolti non ti convince, non ti convince punto e basta.
Penso che la gente che viene ai concerti... credo che pian piano si sia abituata e si sia interessata a Uzeda proprio venendo ai concerti.
Senti, ma toglimi questa curiosità: mi racconti come Steve Albini e John Peel sono venuti a conoscenza del gruppo?
Albini, guarda, semplicemente: come tutti i gruppi della Terra gli abbiamo mandato un demo dicendogli: "Queste sono le nostre canzoni. Ci piacerebbe tanto che tu le registrassi." E lui ci ha risposto: "Va bene, mi piacciono. Le registro. Dove e quando?". Noi gli abbiamo detto: "Qui in Sicilia perché per noi è meno costoso". Lui è venuto giù in Sicilia e ha registrato il secondo nostro album, che ancora non era su Touch & Go.
E così è cominciata la nostra amicizia, oltre che collaborazione.
Con Peel è stato un po' diverso: Emma Anderson dei Lush, con i quali avevamo fatto un tour in Italia, presentò il nostro disco a John Peel e a lui piacque. Poi ci arrivò questa richiesta di fare la prima e poi la seconda Peel Session.
Semplicemente.
Le cose sono andate in maniera comune e banale.
Siamo stati molto sorpresi quando siamo stati invitati a fare la Peel Session, ma più ancora quando hanno deciso di metterla fuori su disco. Quello sì, quello ci ha commossi perché era, tra l'altro, un momento in cui non trovavamo un'etichetta che ci mettesse fuori i dischi in Italia. Per noi è stato, veramente, un momento di commozione: finalmente c'era qualcuno disposto a pubblicare quello che facevamo.
Tra l'altro non l'abbiamo mai incontrato personalmente, ci siamo lasciati dei bigliettini vari, ma non ci siamo mai, mai incontrati. Ho un grande rimpianto perché quando siamo andati all'All Tomorrow's Parties nel 2004, lui c'è passato davanti e ho avuto la tentazione di chiamarlo, ma, poiché sono notoriamente, ahimé, molto timida, non l'ho fatto: aveva appena finito il dj-set e non lo volevo disturbare. Purtroppo non potevo immaginare che di lì a poco non ci sarebbe mai più stata l'occasione di incontrarci e conoscerci.
Ultime due domande.
La prima velocissima: sarete in tour?
Spero molto presto. Penso fine novembre, primi di dicembre. Se tutto fila liscio, dovrebbe essere così.
Ultimissima. Mi è giunta voce che siete stati voi a fondare la Indigena Booking.
Sì. Quando abbiamo deciso di impegnarci in quello che volevamo fare e non in quello che poteva essere remunerativo o di risposta immediata, siamo stati, ahimé, costretti ad avere anche un lavoro per vivere. Ci siamo scelti delle occupazioni che potessero lasciarci quanto più tempo possibile per andare in giro e suonare. C'è chi ha scelto di fare l'insegnante, c'è chi ha aperto un'attività con il fratello in modo che potesse essere libero di muoversi quando voleva, così abbiamo fatto anche noi (Giovanna e Agostino): abbiamo pensato di mettere al servizio di tante band che magari erano sconosciute e avevano difficoltà a suonare in Italia quel minimo di esperienza che avevamo fatto con l'organizzare i concerti per Uzeda. Così è cominciata la storia di Indigena, che è anche un negozio di dischi e di strumenti vintage. Un po' di tutto, insomma, racimoliamo tante cose per sbarcare il lunario, ecco.
È difficile organizzare concerti per gruppi melodicamente poco accessibili?
Sì, è difficilissimo e devo dire che, in Italia, è stato fondamentale il coinvolgimento di tanti promoter e tanti locali che hanno sposato la causa. L'Interzona a Verona è stato un punto di riferimento per tutti quelli che hanno cominciato questo lavoro prima, con e dopo di noi e che speriamo prestissimo ritorni a essere parte della scena live italiana. Insieme a loro, chiaramente, anche tanti altri locali in Italia: il Covo, il Link, il Leoncavallo, l'Hiroshima e tantissimi altri che, in questo momento, non mi stanno sovvenendo.
La conversazione si chiude con i classici ringraziamenti e Giovanna mi augura di stare bene e di riuscire a fare sempre quello che il mio cuore desidera. Sono commossa.
(28 settembre 2006)