Per la presentazione del suo nuovo progetto, Diamond Curtain Wall Trio, il leggendario sassofonista americano ha scelto, come unica data italiana, la XIV edizione del Pomigliano Jazz Festival, una manifestazione che, di anno in anno, va confermandosi come una delle realtà musicali più importanti del Belpaese.
Preceduta da un’esibizione piuttosto altalenante del chamber trio guidato dal contrabbassista William Parker, quella di Braxton (sassofoni, clarinetto, elettronica) e dei suoi due sodali (Taylor Ho Bynum - tromba, trombone, cornetta, shells – e Mary Halvorson - chitarra elettrica) è stata una performance che ha messo a dura prova la pazienza del pubblico, di certo non abituato a forme così radicali di improvvisazione jazzistica.
Per circa un’ora, infatti, i tre hanno dato vita a un continuum sonoro che ha evidenziato un po’ tutte quelle che sono le caratteristiche essenziali della ricerca del musicista chicagoano. Un free-jazz altamente concentrato sull’esplorazione timbrica e sulle interrelazioni strumentali, con l’uso di tappeti elettronici contro cui le ardite elucubrazioni andavano a schiantarsi, di volta, in volta, salvo, poi, risorgere dalle loro stesse ceneri.
Una clessidra posizionata nel bel mezzo del palco, quasi a ricordarci che questa musica, pur svolgendosi nel tempo, combatte contro le ragioni stesse del tempo, cercando una sua eternità nell’attimo stesso in cui va rivelandosi.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, ventitreenne, Braxton, dopo essere entrato nei ranghi dell’A.A.C.M. (Asociation for the Advancement of Creative Musicians) fondata dal pianista Muhal Richard Abrams (che lo fece esordire nel suo classico “Levels And Degrees Of Light”), registrò “3 Compositions of New Jazz”, uno dei punti fermi di tutto l’avant-jazz. Ma, inutile negarlo, quello del Diamond Curtain Wall Trio non è altro che una evoluzione ulteriore di quella ricerca imbastita intorno al rapporto fondamentale tra suono, spazio e tempo.
Ecco, quindi, che nei duetti sterminati di Braxton e di Ho Bynum si consuma tutto un discorso di sfumature e di straripamenti timbrici che la chitarra della Halvorson cerca di trattenere nell’alveo di una dimensione geometrica, quasi fosse il centro propulsore del tutto. Eppure, vista l’assenza di una sezione ritmica, i fiati duellano senza limiti, esplorando mille direzioni, mille sensazioni, con Ho Bynum che, a un certo punto, inizia a soffiare anche all’interno di una conchiglia marina... E Braxton che, tra slap-tonguing e respirazione circolare, mette in scena un po’ tutto il suo repertorio di trucchi, lasciando che il suono acquisisca, progressivamente, vibrazioni sempre più astratte.
Improvvisazione e composizione svaniscono una dentro l’altra, e quello che resta è la sensazione di un suono che non possiede inizio né fine, ma che il musicista si limita a catturare ogni volta che sente il bisogno di esprimere la sua sensibilità più profonda.
C’è ancora spazio, poi, per la clamorosa line-up Braxton-Parker-Don Moye che, mentre vengono proiettate foto riguardanti la lotta operaria dei lavoratori della Fiat di Pomigliano d’Arco, riesce nell’impresa di creare un’atmosfera pregna di pathos diamantino, coinvolgendo il pubblico in un andirivieni di emozioni. Precarietà del lavoro e magia di un jazz tanto "libero" quanto caldo e avvolgente: un connubio forte e necessario.
Alla fine, mentre mi firma alcuni vinili, è bello constatare che un musicista così geniale è anche incredibilmente umile e gentile, e anzi quasi sorpreso che qualcuno conservi ancora con cura i suoi vecchi capolavori…