Chissà perché, mi sono sempre immaginato Kozelek come un artista altero e distante. Uno di quegli artisti maledetti alla Lou Reed che fanno pesare la loro grandezza artistica sui poveri ascoltatori qualunque. Quest'idea viene corroborata da cartelli bene in vista all'entrata della chiesa di Villanova (Castenaso, Bologna), il cui messaggio viene ribadito a voce dagli organizzatori: l'artista non vuole foto, l'artista non vuole video, l'artista vuole che vengano spenti i cellulari, l'artista vuole un silenzio assoluto. Sembra di dover entrare nel tempio di Gerusalemme.
L'inizio dell'ultimo lavoro dei Sun Kil Moon, poi, è emblematico: la prima strofa di "Ålesund" (No this is not my guitar, I'm bringing it to a friend) non è altro che la tipica risposta data da Kozelek al fan qualunque che lo trova in aeroporto e gli chiede, stupidamente, se quella che ha in mano sia davvero la sua chitarra. Ed è emblematico anche che "Ålesund" sia sempre stata suonata come apertura dei suoi concerti nell'ultimo biennio.
Ma le tesi esistono per essere confutate, e a Villanova cambia qualcosa.
Lo show inizia con il racconto di "Glenn Tipton", il primo fantasma della grande autostrada. Il religioso silenzio (d'altronde siamo in una chiesa...) viene rotto solo dalla sommessa ma evocativa voce di Kozelek, che canta i suoi pensieri accompagnato dal moto perpetuo di complessi arpeggi. Le corde in nylon della chitarra sono naturalmente riverberate grazie alle marmoree ed alte pareti del luogo. L'artista pare si trovi a suo agio sull'altare, pare sia conscio dell'atmosfera mistica che sta creando; "parecchio inquietante, eh?" commenta. Cerca di interagire col pubblico, ricevendo raramente risposta: "state capendo ciò che dico?" chiede; ma la gente è rimasta senza parole, si è lasciata rapire dalle poesie.
Gran parte della setlist è dedicata al repertorio più recente, ma gli applausi più convinti sono indirizzati ai due classici tratti dal granitico primo album omonimo dei Red House Painters, "Take Me Out" e "Katy Song". Kozelek emoziona e ipnotizza (soprattutto col mantra di "Heron Blue"); talvolta sorprende il pubblico con cover inattese (non tanto "You Ain't Got A Hold On Me" degli Ac/Dc quanto "Follow You, Follow Me" dei Genesis).
Dopo Katy Song si allontana, torna sull'altare per far cessare il loop di applausi e chiede che cosa vogliamo sentire. I titoli citati dal pubblico si sprecano, molti appartengono alle primissime cose di Kozelek (qualcuno azzarda "Lord Kill The Pain"!!!), il quale, con l'espressione di chi domanda pietà col sorriso, commenta "ma quella è roba di vent'anni fa!". Si vede che nemmeno gli dei della musica sono immuni al fascino femminile, dato che esegue su richiesta di una sola ragazza "Carry Me, Ohio" e "Summer Dress". Poi ringrazia, gentilmente, e se ne va.
Malcolm McDowell diceva che un vero leader sa quando concedere, e mostrarsi generoso agli inferiori. E la mia impressione è che anche Mark lo sapesse, quella sera, a Castenaso. Sottolineando, come se ce ne fosse davvero bisogno, la differenza tra noi e loro; perché, diversamente da quanto cantavano i Pink Floyd, non siamo tutti uomini ordinari.