19/06/2013

Fidlar

Bunker, Torino


di Stefano Ferreri
Fidlar
A volte capita di trovarsi a un concerto e di soffermarsi a pensare quanto sarebbe bello vivere quello stesso evento nei panni e con la dotazione tipica di un adolescente. Forma mentis stile spugna di mare, spirito rilassato ed entusiasta ma ancor più le orecchie, da intendersi come possibilità di approcciare un live senza la zavorra di malizie e giudizi ormai consolidati, per emozionarsi ancora a briglia sciolta quasi si trattasse sempre della prima volta. Fingere comunque non costa nulla, basta dare la giusta imbeccata al fanciullino che subaffitta qualche remoto vano del proprio cervello e l’entrata in temperatura è una pratica agevolmente sbrigata. Col fisico invece non si può proprio bluffare. Ognuno di noi ha avuto la propria fase più o meno eroica, quando nel folto del pubblico gorgogliante ci si poteva concedere anche il lusso di qualche amena pazzia giovanile privando il senno di qualsivoglia voce in capitolo. Esserci passati è già qualcosa di prezioso da custodire tra i ricordi, mentre illudersi di poter replicare a oltranza certe esperienze ci fa tendere più che altro al patetico. Tutto questo ampio e noioso preambolo per rendere conto di come tra gli spettatori al concerto torinese dei Fidlar – seconda data nel Belpaese per la compagine losangelina, dopo la puntata di marzo a Milano – ci fossimo premurati di seguire una condotta di assoluta cautela, contemplando con il dovuto affetto le schiere di ragazzi neanche diciottenni accorsi al centro della pista sotto al palco per un pogo degno di questo nome, eppure fermamente intenzionati a tenerci fuori dalla suddetta mischia.

La venue dell’occasione, inedita anche per tanti habitué come noi della scena live cittadina dura e (non troppo) pura, non è che ci avesse fatto esattamente una grande impressione: fidlar270x220_iimboscata al fondo di una via remota in una periferia tra le meno esaltanti del capoluogo, delimitata da una barriera di scheletri di letti in stile giungla metropolitana un tantino fuori tempo massimo, allestita all’esterno di un ex capannone industriale con gusto eccentrico quanto spartano, a metà strada tra comune squatter e provocatoria galleria d’arte ultrapovera e ultracontemporanea. Non male tuttavia se immaginata come teatro d’azione per l’indiavolata band statunitense, perfetta celebrazione del concetto stesso di “cheap” a partire dal modesto palco di fortuna allestito tra le bancarelle e il magazzino di manufatti in legno, in una specie di ampio cortile dove non ci saremmo stupiti nel veder razzolare eventuali galline. La parte del pollame, tuttavia, doveva essere destinata a tutti noi astanti, dapprima pochi e liberi di vagare tra la zona bar e le casse con musica sparata a mille, quindi assiepati non senza timori in questo secondo settore, in balia dell’imminente tifone tropicale rappresentato dall’esibizione del gruppo spalla locale e della sua corte di affezionati manigoldi.

Prima del via, comunque, più o meno nei minuti del nostro arrivo (in linea con l’orario d’inizio segnato sui nostri biglietti, smentito poi clamorosamente da quello stampato sui poster dell’evento piazzati in loco) due significativi accadimenti ci si erano presentati con la forza evocativa di vere e proprie epifanie. Dapprima la visione dei Fidlar al completo seduti in un bivacco sulle panche della piccola area ristoro in compagnia di qualche giovane autoctono, a ridere e scherzare senza ritegno con sulla tavola un notevole assembramento di birre in lattina da 50, rigorosamente di discount. La strategia di un fugace contatto giustificato dall’emulazione naufragava però sul nascere, visto che il ragazzo al bancone ci spiegava che quelle birre, numerosissime nel frigo alle sue spalle, non erano del locale bensì della band stessa, custodite come tesori nemmeno si trattasse dell’oro di Fort Knox. Soltanto qualche minuto più tardi, beatamente appoggiati a una transenna, ci capitava però l’occasione per rifarci subito, un fortuito scambio di battute con il minuto frontman Zac Carper attratto sulla via dei furgoni dalla nostra maglietta fiammante di King Tuff: due risate di numero e relativi complimenti, raccolti a sorpresa ma con innegabile soddisfazione.

Del delirio scatenatosi a ridosso del palco una mezzoretta dopo, si è dato giusto un cenno. Evitiamo di aggiungere molto altro perché ci sembra che gli opener e la loro ghenga di aficionados fidlar270x220_ivnon abbiano meritato nulla al di là di una plateale indifferenza. Sentimento turbato peraltro dalle facce poco raccomandabili dei più facinorosi tra i soggetti coinvolti nel marasma selvaggio, e ancor più dalla coppia di idioti che trovava evidentemente irresistibile lanciare raudi in pista a pochi passi dai nostri piedi innocenti. Per nostra fortuna, come da previsioni, l’avvicendamento tra i gruppi è andato di pari passo con un salutare ricambio nelle file calde in platea, ora più nutrita ma decisamente meno minacciosa. A svettare, in quanto a entusiasmo, un terzetto di ometti glabri e pustolosi con T-shirt presumibilmente realizzate di proprio pugno, manica tagliata alla spalla e scritta FIDLAR in nero UniPosca ripresa in maniera fedele  dalla copertina dell’album. Piazzatici con abile scelta strategica proprio a lato della pedana rialzata, tutelati alle spalle dall’indispensabile protezione della martellante torre di casse, abbiamo avuto modo di seguire l’intero show garantendo la necessaria incolumità tanto ai muscoli e alle ossa quanto alle orecchie. E si è trattato, occorre chiarirlo subito, di uno spettacolo all’altezza delle aspettative, sia sopra che sotto al palco.

L’avvio con l’inevitabile doppietta “Cheap Beer”/”Stoked  and Broke” ha rotto il ghiaccio senza indugi, scatenando i quattro californiani in braghe corte e dettando i giusti ritmi a chi al loro cospetto, in fondo, non aspettava altro. Mitragliate d’adrenalina senza fronzoli e ad altissimo coefficiente anthemico, il perfetto biglietto da visita con cui presentarsi a un pubblico di studenti appena entrato in clima vacanze. Un’atmosfera, quella oziosa e ludica, magicamente sprigionata da una band goliardica come poche altre, in questo momento: il piccolo Carper e il batterista Max Kuehn, vere icone di musicisti slacker, l’altro Kuehn con maglietta dei Thin Lizzy a incarnare l’anima più hard-rock (particolarmente accentuata in ambito live rispetto al disco, come ben rimarcato dai ricami enfatici della sua Gibson in “White on White”) e il mite bassista Brandon Schwartzel a ritagliarsi un pur modesto ruolo di portavoce, in una linea comunicativa altrimenti ridotta all’osso onomatopeico o giocata (quasi in toto) sul piano fisico. Poche le deviazioni dalla norma di un garage-skate-punk lercissimo, divertente e cialtrone, figlio legittimo di Germs e Descendents (omaggiati con una mirabile cover di “Suburban Home”): una “No Waves” quasi pop, a tradire l’amore lontano per gli assai meno indimenticabili Blink 182, e la deriva dark della più nichilista “Whore”.

Se il Kuehn batterista ha avuto il suo piccolo momento di gloria con tanto di presentazione, per il pezzo a lui dedicato “Max Can’t Surf”, la star informale di una compagine altrimenti più che democratica è stata il suo principale cantante, Zac Carper:fidlar270x220_iii il più attivo nel battere il cinque a destra e a manca, nel suonare la sua Fender “Burrito” (letteralmente tappezzata di adesivi) e dimenarsi da sdraiato come una bestia ferita, nel farsi autentiche docce di birra e concedersi l’immancabile passeggiata nella folla, portato in trionfo e issato nel momento clou per gridare a perdifiato dalla cima di una delle casse. La risposta del pubblico non è mai venuta meno: ininterrotto un pogo mai davvero cattivo, a folate i refrain cantati a una sola voce, come nel caso di “Blackout Stout” e del suo emblematico “I can’t find my way home”. L’assenza di bussole o riferimenti forti come autentico collante generazionale, ben più del tema della perdizione (si prenda la torva e allucinata “Cocaine” per gli ovvi riferimenti) annacquato dall’indole felicemente neghittosa del quartetto. Che ha regalato ai fan italiani anche la chicca di “The Punks are Finally Taking Acid”, versione sfatta e catatonica dei loro consueti standard, prima dell’infuriato rimpiattino vocale della conclusiva “Wake Bake Skate”. Chi scrive qui si è divertito parecchio illudendosi di tornare fanciullo. Nella concitazione del finale ha preso un microfono in faccia e visto i propri occhiali lanciarsi in un improvvisato stage diving nella marmaglia umana. Niente di rotto, solo escoriazioni che onorano i bei tempi andati e fanno sempre curriculum.
Ah, ha anche preso altro. La lattina originale di Kralle Bräu Lager usata da Zac più che altro per annaffiarsi la faccia. La famosa cheap beer insomma, ora pezzo pregiato di una grande collezione privata.
Setlist
  1. Cheap Beer
  2. Stoked and Broke 
  3. Got No Money
  4. White on White
  5. No Waves
  6. No Ass
  7. Max Can't Surf
  8. Suburban Home
  9. 5 To 9
  10. Whore
  11. Awkward
  12. Blackout Stout
  13. Carnivore Girls
  14. The Punks are Finally Taking Acid
  15. Wait for the Man
  16. Cocaine
  17. Wake Bake Skate
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