“Nothing can stop me now” è uno dei versi più famosi di una delle canzoni (“Piggy”) più celebri della creatura di Trent Michael Reznor, i Nine Inch Nails. E niente sembra davvero possa fermare questo 48enne della Pennsylvania, che da un mesetto a questa parte ha ricominciato a portare in giro per il globo le sue performance live, dopo una pausa durata quattro anni.
Questa volta è stato il turno di Milano, Forum di Assago. Location particolare quella meneghina, per due motivi: il primo legato al fatto che in questa prima tranche di tour di promozione del nuovo lavoro “Hesitation Marks”, in uscita il 3 settembre, i NIN si sono esibiti praticamente solo nei festival estivi (salvo una club performance a Londra); il secondo per la scelta di suonare indoor il 28 di agosto.
Qualunque sia stato il motivo della scelta, Reznor deve averla ponderata bene, perché, durante le quasi due ore di concerto, introdotte dai Tomahawk di Mike Patton, l’ormai ex-Mr Self Destruct ha sciorinato in maniera impeccabile tutto il suo ormai vastissimo repertorio. La cosa che a parere di chi scrive rende unici e inimitabili i Nine Inch Nails è il fatto di saper spaziare senza batter ciglio su più fronti musicali. Ne è testimone la loro discografia, che non presenta di fatto un lavoro simile all’altro. E anche lo show milanese ha dimostrato una volta di più la poliedricità e l’eclettismo di questo gruppo, a torto più volte recluso dietro l’etichetta “industrial”.
Dopo il vorticoso inizio elettronico con tutti e cinque i membri della band allineati sul palco in stile Kraftwerk a smanettare a console, tastiere e drum machine, si è infatti poi passati in un lampo a una più classica performance live con batteria, basso e chitarra in primo piano, per poi, a fase alterne, ritornare via via sull’elettronica più cupa, sulle ballate e sull’ambient.
Inizio elettronico, dicevamo, con l’ormai classica (per questa tornata di concerti estivi) entrata in solitaria di Reznor, la cui mise, composta da canottiera verde lisa, pantaloni corti neri e bicipiti scolpiti, ricorda quella di un muratore capitato quasi per caso sul palco. Due giri di manopole alla console e attacco fulminante con la nuova “Copy Of A”, con gli altri membri (tutti superlativi come il loro mentore) della band entrati anch’essi uno alla volta sul palco a distanza di qualche secondo uno dall’altro.
Le luci del palazzetto restano tutte sorprendetemente accese, insieme a un faretto accecante posto accanto al frontman. Che si tratti di un errore? Manco per sogno. E’ solo per aumentare l’effetto dell’improvviso salto nel buio a metà canzone, quando comincia a farla da pardrona la scenografia vera e propria, composta da luci coloratissime e provenienti da qualunque parte del palco e da cinque pannelli mobili, spostati poi di continuo durante tutto il live e mai illuminati allo stesso modo.
Dopo la bella rivisitazione di “Sanctified” con un giro di basso che entra nello stomaco ed il singolo “Came Back Haunted” (efficacissimo e ancora più catchy che in studio), in un batter d’occhio si cambia scenario. Via le drum machine e le tastiere. Si comincia a pestare durissimo.
Per sette canzoni di fila non c’è un attimo di respiro. Anzi sì, c’è lo splendido intervallo al piano di “The Frail” a far rifiatare un attimo. Si parte con “1,000,000” e si finisce con “Gave Up”. In mezzo, tra il muro del suono di “March Of The Pigs” e la follia altalenante e cacofonica di “Piggy” (con tanto di semi-tuffo tra il pubblico di Reznor), c’è spazio anche per “I’m Afraid Of Americans” di Bowie, uno degli idoli del muscoloso mattatore della serata.
Menzione a parte per “Closer”, coi pannelli luminosi a rinchiudere Reznor in una gabbia e a rimandare la sua immagine distorta in rosso mentre tutti si chiedono dove lo stesso Reznor sia finito. Poi, come per magia, i pannelli si dischiudono, e rivelano la figura dell’uomo di Mercer impegnata davanti a una telecamera. Geniale.
Dopo la “settina” (probabilmente la parte migliore del concerto) si prosegue cambiando registro quasi di canzone in canzone. C’è spazio per l’elettronica abrasiva di “Me, I’m Not”, per la calma minimal di “Find My Way” (altro pezzo del nuovo disco), per la pacatezza ambient di “What If We Could?” (dalla colonna sonora di “The Girl With The Dragon Tattoo”), per il “bad luck fist fuck” di “Wish” e il synth-pop di “Only”.
Il finale, dopo la piacevolissima “The Hand That Feeds”, è affidato a uno dei primissimi successi dei Nails, “Head Like A Hole”, capace di far saltare tutto il palazzetto sul “I rather die than give you control”.
Il bis è uno solo, ma varrebbe l’intero prezzo del biglietto. Stiamo ovviamente parlando di “Hurt”, una canzone che potresti ascoltare cento volte di fila come se fosse la prima, tale è la sua bellezza malata e straziante. Reznor sceglie di cantarla senza l’ausilio del piano, ma accompagnato dalla chitarra del fido Robin Finck, prima dell’esplosione noise finale.
Applausi scroscianti e lunga vita a mister Reznor. E che niente possa fermarlo, per favore.
Copy of A
Sanctified
Came Back Haunted
1,000,000
March of the Pigs
Piggy
The Frail
The Wretched
Terrible Lie
I’m Afraid of Americans (David Bowie cover)
Closer
Gave Up
Help Me I Am in Hell
Me, I’m Not
Find My Way
The Warning
What If We Could? (Trent Reznor and Atticus Ross cover)
The Way Out Is Through
Wish
Survivalism
The Good Soldier
Only
The Hand That Feeds
Head Like a Hole
Hurt