12/05/2018

Shame

Covo Club, Bologna


L'incontrovertibile tendenza delle nuove generazioni a considerare il rock e le chitarre elettriche elementi piuttosto lontani da qualsiasi forma di controcultura sembra non coinvolgere più di tanto gli Shame, che sotto questo aspetto rappresentano post-millennials d'eccezione.
Insensibili al fascino tecnologico emanato da coetanei rinchiusi nelle loro stanze con portatile, cuffie e controller, i cinque ventenni del sud di Londra hanno preferito abbandonarsi alla decadenza della cara vecchia sala prove (quella dei Fat White Family) per modellare un suono che in termini stilistici non è affatto nuovo, ma la cui urgenza espressiva non ha nulla da invidiare a band decisamente più blasonate.
Il materiale video presente sulle piattaforme social dipinge un gruppo perfettamente a suo agio con l'estetica old-style del live act a base di sudore e condivisione, ed è per questo che siamo andati a toccare con mano l'attitudine della compagine inglese in occasione della loro primissima discesa in Italia, al Covo Club.
L'evento coincide con il closing party stagionale dello storico locale bolognese, in una fresca serata di maggio che aiuta a rendere più sopportabile la calca nella piccola sala concerti. L'apertura dello show è affidato al Romy Vager Group (comunemente RVG), combo proveniente da Melbourne dedito al post-punk di matrice cantautorale in bilico tra Nico e Siouxsie. La Vager e la sua band intrattengono con garbo e determinazione le più di duecento persone accorse, distillando semplici linee chitarristiche perfette per orientare la dinamica delle song e offrire l'antipasto più indicato in attesa del piatto principale della serata, il gruppo di Charlie Steen e compagni.

Raggiungere il palco non è semplice: bisogna attraversare due volte lo spazio occupato dal pubblico (la prima volta per il soundcheck di 15 minuti). Grazie al contatto ravvicinato, è più facile notare quanto gli Shame siano in realtà ancora apparentati più con la loro fase adolescenziale che con quella adulta. Non sono né timidi né esitanti né boriosi, ma quando ti passano accanto, è un attimo pensare ai banchi scolastici. Soltanto Steen ostenta un sorriso maturo e ironico, forse perché è pane quotidiano di un frontman metabolizzare queste cose prima degli altri.
L'incoraggiamento della sala è già comunque notevole prima ancora che gli strumenti vengano collegati agli amplificatori, segno dell'evidente apprezzamento riscosso da "Songs Of Praise". Ad accendere la miccia ci pensa proprio Steen, che fiuta correttamente l'entusiasmo nell'aria a metà dell'opener "Dust On Trial" e si getta nella prima dimostrazione di crowd-surfing. La sequenza dei cinque brani iniziali ricalca perfettamente la tracklist del disco, inframezzata soltanto da un avvertimento che il cantante sottolinea a dovere: "A nome della band ci tengo a dire che gli Shame non tollerano nessuna forma di abuso o discriminazione tra il pubblico. Ricordatevi che tutto questo è solo intrattenimento". Non male per dei ventenni alle prese con un piccolo tour mondiale.

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Il suono dei cinque ragazzi è piuttosto uniforme dal vivo, e loro stessi non sembrano curarsi affatto di perdere parte delle sfumature presenti sul disco. Complice una evidente irruenza giovanile, è la furia a prendere spesso il sopravvento anche dove le parti vocali propenderebbero verso il parlato ("The Lick") o dove le atmosfere sarebbero in realtà dilatate ("Angie"), spostando l'asticella più dalla parte del punk che del post-punk, ma il risultato è ben lungi dall'essere falsato.
Josh Finerty riesce a tenere il basso a tracolla mentre rimbalza di schiena (a dire il vero un po' schizofrenicamente) tra le due pareti che delimitano il palco, rotolando per terra nel tragitto, e trova anche il tempo di cimentarsi con i cori: è quasi un miracolo vederlo tutto intero nei pochi momenti di pausa.
Tra i vari episodi ("Friction", "Lampoon", "Gold Hole") estratti dall'unico repertorio possibile, viene presentata anche una non meglio identificata nuova song, già svelata nelle date precedenti, che odora di work in progress pur restando in tema con il resto (assomiglia a "Friction" ma Steen la apostrofa come weird, strana).

A tratti, la proverbiale schiettezza del cantante potrebbe sembrare una posa, per esempio quando declama: "Vi ringraziamo per essere qui con noi. Se volete pagare per il nostro disco saremo contenti, ma se preferite scaricarlo o ascoltarlo gratis, non ce ne frega davvero nulla". Eppure, nell'insieme, è piuttosto naturale credergli, almeno per ora.
Ha bisogno di sincero contatto umano, Charlie. Ringrazia Bologna e gli RVG, declina le sue poche parole di italiano, battezza tutti con l'acqua su "The Lick" (cantando "Bathe me in blood and call it a christening"), condivide birra e sigarette con le prime file, si esercita nel ruolo di frontman senza tradire mai le sue origini working class.
Il rapporto di fiducia gli consente di surfare sull'audience ancora un paio di volte (l'ultima restando in piedi) prima della conclusiva "Donk", che restituisce l'immagine di cinque volti esausti sul palco e già una bella sensazione di corposità nonostante l'esigua scaletta (dalla quale viene inspiegabilmente esclusa, come peraltro nel disco, "Visa Vulture"). 
Gli Shame escono dalla sala avventurandosi nuovamente tra il pubblico, pronto ad accoglierli con una generosa dose di pacche sulle spalle, come si fa con i ragazzi volenterosi che si sono applicati nello studio e hanno passato l'esame. Per il momento la loro proposta live non sembra voler puntare eccessivamente sull'impronta post-punk dell'esordio discografico, preferendo invece una resa più energica dei brani, che di certo non impedisce loro di confermarsi come una delle rivelazioni del 2018.