È una Cavea stracolma, di pubblico e di attese, quella che accoglie il ritorno dei Tears For Fears a Roma dopo ben 29 anni (ultima esibizione: Palazzo dello Sport, 1990). Di anni ne sono passati tanti – 15, per l’esattezza - anche dall’ultima prova discografica del duo, il pasticciato “Everybody Loves A Happy Ending”, che costò al nostro recensore l'ira funesta dei fan ma alla fine non lasciò quasi traccia, consegnando definitivamente il glorioso marchio alla nostalgia anni 80. Ed è un amarcord in piena regola, quello che Roland Orzabal e Curt Smith, di nuovo insieme dopo un lungo periodo di liti e dissapori, celebrano sul palco dell’Auditorium. Un Greatest hits live, ispirato dall’ultima uscita discografica della band inglese, l’antologia “Rule The World”, pubblicata nel 2017 tanto per provare a rinfrescare i ricordi.
Già approdato a Padova e Milano per due tappe invernali, il Rule The World Tour vede Orzabal (cantante, chitarrista e compositore) e Smith (voce e basso) affiancati da una solida formazione con Charles Pettus alle chitarre, Doug Petty alle tastiere, Jamie Wollam alla batteria e la vocalist Carina Round ai cori.
Mentre le luci del tramonto ancora non cedono al buio, in un’afosissima serata romana che dimentica ogni traccia di Ponentino, le note di “Everybody Wants To Rule The World” irrompono in scena. Non si tratta, però, della versione originaria della band, bensì di quella firmata da Lorde nel 2014, in chiave più cupa e dimessa. È solo un antipasto, però, perché la hit di “Songs From The Big Chair”, nella sua consueta veste ariosa ed esuberante, è proprio l’apertura del concerto. Ed eccoli lì, i due vecchi quasi-amici: un sorridente Roland Orzabal, oltre a una camicia opinabile e a qualche ruga in più, sfoggia la consueta zazzera riccioluta in versione ormai sale e pepe oltre a una buona potenza vocale; il più sobrio Curt Smith resta defilato, ai lati del palco, mettendo in mostra la sua consueta ugola sottile e raffinata, anche se l’estensione non può essere più quella degli anni d’oro. A sostenere i due nei momenti più critici provvederà comunque la scatenata Carina, che pare uscita direttamente da una puntata della serie “This Is England”, con la sua frangia cotonata e il vestito nero plasticato in omaggio ai ruggenti 80’s.
I quattromila della Cavea - orde di cinquantenni frammiste a giovani adepti e turisti occasionali - esultano come a un gol, anche se la successiva “Secret World” – tratta dal famigerato “Everybody Loves A Happy Ending” – frena un po’ gli entusiasmi, pronti però a riaccendersi sul coro da arena di “Sowing The Seeds Of Love”, tour de force fricchettone pieno di rimandi ai Sessanta “peace & love” ("High times we made a stand and shook up the view of the common man"), tra ritornelli appiccicosi e fantasie strumentali di beatlesiana memoria. Non certo un caso, quando si parla di Tears For Fears. Del resto il fantasma dei Fab Four – di sir Paul McCartney, per la precisione – aveva già fatto capolino nella marcetta strumentale piazzata nel mezzo del brano precedente, così vicina a “Let ’Em In” da venir citata esplicitamente.
Orzabal e Smith sembrano quasi ignorarsi, resteranno a distanza di sicurezza l’uno dall’altro per tutta la durata del set, lasciando presagire che forse non tutti i dissapori sono stati superati. O forse no. Ma certo non è un clima di grande empatia quello che si respira sul palco. È Roland il più chiacchierone dei due: “Buonasera, amici di Roma, siamo molto felici di essere qui, in questa bellissima città”, saluta il pubblico in un italiano stentato, ma non troppo, visto che – ci terrà a informarci - la sua nuova fidanzata “pur essendo americana parla fluentemente italiano”. Curt, invece, gioca a fare il riempipista: al suo accenno sulle prime note di “Change”, orde di spettatori si avvicineranno al palco per stringergli la mano, preludendo alla prevedibile invasione del sottopalco.
Prima, però, c’è tempo per altre hit. Come la sempiterna “Pale Shelter”. Si entra così idealmente nella cameretta dei giovani Roland e Curt, nella provincia inglese di Bath, per esorcizzare i traumi della loro infanzia difficile, lacerata dalle separazioni e dalla mancanza di affetto: “You don't give me love (You gave me pale shelter)/ You don't give me love (you give me cold hands)”. Niente amore, solo un pallido rifugio: eccola, l’accusa più dura ai genitori anaffettivi, sobillata dallo psicologo Arthur Janov, il fautore della terapia dell’Urlo primordiale (“Primal scream”), al quale i Tears for Fears si ispirarono anche per la scelta del nome. Sventagliata dagli interventi della chitarra acustica e riportata alla malinconia più maestosa dai synth sullo sfondo, “Pale Shelter” rifulge di puro spirito eighties, quello che gli ottusi detrattori del decennio non potranno mai comprendere.
Saranno ben cinque i brani tratti dal debutto-capolavoro del 1983. Infatti, dopo il rock energico di “Break It Down Again” (in cui Smith partecipa ai cori, pur non avendo contribuito alla versione in studio) e le malinconiche ballate “Advice For The Young At Heart” e “Woman In Chains” - con un’ottima Carina Round a rievocare lo charme soul di Oleta Adams - arriva una quaterna da brividi, tutta di marca “The Hurting”.
Apre una scatenata “Change” con la suddetta invasione del sottopalco istigata da Smith: si balla, si canta e ci si tuffa, inevitabilmente, nei ricordi di una generazione intera. Segue l’altra apoteosi di “Mad World”, il prodigio elettropop che condensa in pochi minuti tutta l'enciclopedica cultura musicale di Orzabal, tra bordoni di synth, progressioni di ritmo e la ripetizione sognante delle parole del titolo. Quasi un mantra, rilanciato nel 2001 dal cult-movie “Donnie Darko”, nella versione acustica di Gary Jules. Ricordi che riaffiorano e ricordi che sbiadiscono, mentre le cicatrici restano: ecco “Memories Fade”, in una versione riarrangiata, ma sempre terribilmente struggente, così come la preghiera di “Suffer The Children”, intonata dalla Round con Orzabal ai cori, in una rilettura minimalista per piano e chitarra. Pochi dubbi che – oggi come allora - resti “The Hurting” l’album preferito del duo (e di chi scrive), ma anche - a sorpresa - del pubblico più giovane di Spotify, a conferma della sua permanente modernità.
Cosa c’entri in scaletta la cover di “Creep” dei Radiohead, invece, Dio solo lo sa. Orzabal se n’è impadronito ormai al punto da non citare neanche più i legittimi autori, limitandosi solo a ricordare che il pezzo “parla di due amanti”. Sarà forse un modo per esercitare una sorta di primogenitura dei Tears For Fears sulla generazione britpop? Può darsi, fatto sta che avremmo preferito qualche altro gioiello nascosto del loro repertorio (“The Hurting”? “Watch Me Bleed”? “The Working Hour”? “I Believe”?) considerata anche l’esigua durata del concerto.
Ma pazienza, perché prima del gran finale c’è tempo per apprezzare ancora tutte le sfumature tecniche e compositive della band nel collage blues-jazz-rock della lunga “Badman’s Song” e in una versione potente e trascinante del medley “Head Over Heels”-“Broken” (altro colpo da ko di “Songs From The Big Chair”) che manda in visibilio la Cavea.
Il finale era annunciato: l’unico bis, che non poteva non essere affidato a “Shout”, inno pop da cantare in coro – in uno stadio, o insieme ai bambini del memorabile videoclip - antesignano dei vari Coldplay e compagni a venire. Ma non è la torrenziale orgia live che si poteva immaginare: si rimane infatti nell'alveo di una esecuzione classica, sufficientemente composta e fedele all'originale.
Il concerto è (già) finito. E c’è chi resta con l’amaro in bocca, considerati l’attesa per l’evento e, soprattutto, i prezzi esorbitanti dei biglietti. Ma sinceramente stavolta non ce la sentiamo di puntare il dito: la scaletta – al netto di quanto si diceva sopra - è stata incisiva e appagante, un sentito auto-tributo a una carriera che, pur con pochi dischi all’attivo, resta tra le più brillanti del pop britannico degli ultimi quarant’anni. E l’esecuzione, tutto sommato, è stata all’altezza. Anche se il pathos e l’emozione di quegli anni restano lontani. Del resto, per dirla con “Memories Fade”, i ricordi sbiadiscono, ma le belle canzoni restano.
(Versione estesa di un articolo pubblicato su Leggo.it)