Partecipare in tre diverse occasioni a un concerto dei sacerdoti drone-doom per eccellenza non può che sfatare inconfutabilmente un luogo comune duro a morire: quello per cui i nostri sarebbero sempre uguali a se stessi, comodamente assestati in un ritualismo ripetitivo e autocompiaciuto.
Ecco le mie prove contrarie: la prima nel 2009, in tempi quasi non sospetti, per il decennale di “The GrimmRobe Demos”, dove fu soltanto il nucleo originario O’Malley/Anderson a rievocare l’intransigenza dei loro seminali esordi; poi la spettacolare celebrazione del 2016 al Labirinto della Masone, con l’officiante Attila Csihar a scandire i momenti di una lunga estasi collettiva in onore del Suono totale.
Arriviamo a oggi, gennaio 2020, con la tappa milanese del tour di un altro album decisivo, ulteriore summa della loro estetica in graduale evoluzione: “Life Metal”, già dal titolo un manifesto che li pone ancora una volta in controtendenza rispetto all’immaginario predominante della musica estrema.
Al di là del bene e del male, oggi più che mai il muro di amplificatori dei Sunn O))) – qui in formazione a cinque – sembra sprigionare un inno di luce e vita, una forma d’esistenza sonora che attraverso le immense concrezioni distorte delle chitarre si manifesta in una soverchiante “nube della non-conoscenza”, citando il misticismo dell’anonimo inglese del XIV secolo. Ed è l’impianto scenografico stesso, approntato con cura nell’ampio capannone del Live Club di Trezzo sull’Adda, a evocare con pregnanza l’accecante e policromo bagliore di un rogo apocalittico, un fiammeggiante tramonto sulfureo di cromie rosso-violacee, cui le dense coltri di ghiaccio secco danno uno spessore quasi tangibile. Le frequenze ingigantite dal famigerato stage setup fanno sì che le transizioni tra gli accordi - sempre anticipate da solenni elevazioni delle braccia - somiglino a uno sgretolio e rovinare di rocce verso il suolo: è un contrasto onnipresente, quello fra la terrea possenza del corpo sonoro e l’invito alla catarsi per mezzo della sua inesorabile propagazione.
La presenza di sintetizzatore e Moog fra la strumentazione rende riconoscibili (fatto quasi inedito) le tonalità di uno specifico brano, ossia “Troubled Air”, mentre altrove permangono soltanto – benché inequivocabilmente – il mood e le sfumature proprie del dittico dello scorso anno, completato dal più “classico” e uniforme Lp “Pyroclasts”.
È riservato al pre-finale quello che rimarrà come il momento distintivo della performance: i volumi si ridimensionano e Steve Moore imbraccia il trombone per un assolo che, per contrasto con l’assolutismo cui fa da parentesi, assume un afflato lirico ancor più accentuato con una melodia sommessa e malinconica, inaspettata e proprio per questo mesmerica, ineludibile.
La conclusione non potrebbe mai essere sbrigativa, e infatti i Sunn si abbandonano a un’altra mezz’ora di squassanti scosse telluriche e feedback lancinanti, attraversando l’intero spettro acustico per portare a perfetto compimento un altro estatico cerimoniale drone, saggio supremo di un’espressione musicale – per non dire filosofica e spirituale – che oggi ha ormai avvinto un pubblico insospettabile e trasversale, demolendo i confini di genere e gusto con un atto di forza talmente debordante da divenire trascendentale.