With mirth in funeral
And with dirge in marriage
(William Shakespeare, “Amleto”, Atto I, Scena II)
È il più colorato dei funerali, quello officiato dagli Arcade Fire, e al tempo stesso la meno spensierata delle feste. Tutti sono invitati, alla solenne celebrazione dei canadesi per i vent’anni di “Funeral”. “Black tie optional”. Perché si tratta di uno di quegli spartiacque imprescindibili, che segnano ormai anche per i millennial l’ingresso nell’età della nostalgia musicale. E così, il gran teatro degli Arcade Fire parte proprio dall’Italia per riportare in scena la commedia umana della loro opera più celebrata. Immergendosi nell’aria di una sera estiva, sulla spianata di cemento della Fiera di Rho, tra le luci di una ruota panoramica che sembra evocare la Coney Island de “I guerrieri della notte”.Un bagliore sinistro tra gli alberi. È la prima immagine che accoglie il pubblico, appena si apre il sipario scarlatto che nasconde la scena. Nella cornice dorata che domina il palco campeggia una foresta in fiamme, come l’illustrazione di una fiaba per l’apocalisse. Intanto, un quartetto d’archi tutto al femminile accompagna l’ingresso del gruppo con una versione cameristica di “Vampire/ Forest Fire”.
Ed ecco i due protagonisti della pièce, Win Butler e Régine Chassagne, vestiti a lutto come da copione, pronti a cominciare la rappresentazione da quel tunnel impossibile tra due finestre, tra due stanze, tra due anime: lei siede alla batteria, lui imbraccia la chitarra, e le note di “Neighborhood #1 (Tunnels)” si riversano in crescendo sulla platea. Con gli ultimi resti di un sentimento tardo-adolescenziale della vita a trasmutarsi nel processo alchemico della maturità: “Purify the colors, purify my mind/ And spread the ashes of the colors over this heart of mine”.
In alto luccicano gli specchi di una sfera stroboscopica, in basso una campana custodisce nuvole di incenso. Sui maxischermi le immagini scorrono rigorosamente in bianco e nero, a completare l’effetto gotico dell’allestimento. La fisarmonica di “Neighborhood #2 (Laika)” va a sfociare nello struggimento di “Une année sans lumière”, per poi lasciare spazio a un’incandescente, adrenalinica “Neighborhood #3 (Power Out)”. Butler alza trionfalmente la chitarra al cielo, verso i lampi che cominciano a riflettersi in lontananza. Poi va al pianoforte per “Crown Of Love” e sopra di lui, nella cornice barocca al centro del palco, le animazioni prendono la forma di mazzi rose, si trasformano in una girandola dorata, accompagnano una pioggia di coriandoli rossi che invade l’aria sulla coda del brano.
Insomma, sarà proprio vero che – come proclama “Wake Up” – più gli anni passano, più i cuori si raffreddano? Il coro travolgente della canzone-simbolo degli Arcade Fire sembra fatto apposta per smentirlo, con quello slancio di voci all’unisono che va a sovrastare anche le chitarre. “I can see that it’s a lie”, canta Butler. “Lies, lies”, gli fa eco il cuore palpitante dell’altro inno per eccellenza della serata, la poderosa cavalcata di “Rebellion (Lies)”, mentre l’esagitato Paul Beaubrun, tamburo alla mano, incita tutti ad abbandonarsi al rito. Win orchestra il canto del pubblico, per poi cedere il microfono a Régine per l’epilogo di “In The Backseat”. Lei depone rose bianche vicino agli incensi, rende omaggio ai fantasmi del passato, si inginocchia in mezzo a un’altra nevicata di coriandoli. “I’ve been learning to drive/ My whole life”: la voce è quasi un grido, le parole assumono un peso tutto diverso dopo vent’anni. Ovazione, sipario.
A segnare la cesura tra le due parti del concerto, prima vengono diffuse le note de “Il cielo in una stanza”, poi la performer toscana Sarah De Scisciolo (ulteriore tributo di Butler e soci alla creatività italica, insieme alla presenza di Daniele Cavalli in veste di mastro incensiere) recita i versi della sua “La dote dell’uomo”.
Quando gli Arcade Fire tornano in scena, tutti i colori diventano improvvisamente sgargianti e si mescolano nel dancefloor electro-pop della sequenza “Age Of Anxiety II (Rabbit Hole)”/“Creature Comfort”/“Reflektor”/“Afterlife”, fino all’omaggio apocrifo allo Studio 54 di “Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)”: non potrebbe esserci dichiarazione più esplicita del cambiamento di pelle vissuto dal gruppo soprattutto nell’ultimo decennio, che porta tutti a ballare sulle rovine di un presente distopico, tra specchi deformanti e falsi miraggi.
Per i veri brividi, però, bisogna aspettare una rarefatta “My Body Is A Cage”, in cui i riflettori fanno piovere fasci di luce come sbarre. Butler si contorce in un’interpretazione magnetica, assecondando il crescere dell’enfasi. Una parentesi di pura intensità nella voglia di festa che conduce al gran finale, con l’esplosione di una schiera di inflatable men variopinti sulle note di “Everything Now”.
Prima di congedarsi, Win & Régine (con l’ausilio dei soli Richard Reed Parry e Paul Beaubrun) si soffermano ancora per l’ultimo saluto, intonando di nuovo il ritornello di “Wake Up” con tutto il pubblico. È una selva di mani, di voci, di cuori. È il richiamo che guida fuori dall’incendio. La speranza, alla fine, batte la nostalgia. E la pioggia, che ha spettato fino a quel momento a scatenarsi, lava ogni cosa sulla via del ritorno.