Mancavano ormai da 11 anni i Nine Inch Nails - toccata e fuga a Bologna in quel di Casalecchio nel giugno 2014 - e così la tappa milanese del Peel It Back World Tour (anche questa volta unica in Italia) era da circoletto rosso, a dispetto di prezzi per i biglietti ormai fuori controllo, costi esorbitanti per parcheggio e bevande e sciami di zanzare che non concedevano tregua.
Nonostante tutto, dicevamo, l’appuntamento era imperdibile per i fan della band statunitense e in generale per i cultori del rock tecnologico (non scomoderei la parola industrial perché per chi scrive i NIN sono stati molto di più).
Ci si aspettava uno show diviso in quattro atti simile a quello delle prime date del tour tenute in spazi chiusi, con un ring a centro arena oltre al palco principale, dove Reznor veniva affiancato dal dj e produttore tedesco Boys Noize, e invece niente: stage e setlist sono stati più da classico festival estivo all’aperto.
Preceduta da un dj-set martellante quasi in chiave techno, la band fa il suo ingresso alle 22,15, ed è subito delirio con il trittico "Somewhat Damaged"/"Wish"/"March Of The Pigs". Ma le sferragliate elettriche durano poco, il tempo di introdurre due pezzi tratti dall’Ep "Add Violence" del 2017, e cioè "The Lovers" e "Less Than", molto meno aggressivi e più electro oriented, e subito l’atmosfera si fa più intrigante, a tratti ipnotica. Che poi è sempre stato il marchio di fabbrica della band americana, questo suo rimanere sé stessa e insieme essere bipolare, comunque camaleontica.
La setlist non fa sconti: proseguendo sul solco elettronico si susseguono "Echoplex", "Copy Of A" e l’immancabile "Closer", e via via che il concerto si dipana, appare chiarissima l’immagine di una band perfettamente rodata nel suono e nell’estetica, con la voce di Reznor sempre di livello e molto ben equalizzata con la musica.
Atticus Ross ai campionamenti, Alessandro Cortini a basso e synth, Robin Finck a chitarra e synth e Ilan Rubin a pestare sui drums (la ritmica fortunatamente non ha mai il suono classico delle band di metallo pesante, nonostante il nostro si dimeni tarantolato) si alternano agli strumenti senza mai una sbavatura, un’imperfezione, come fossero un prodotto dell’IA e non musicisti in carne e ossa, pur sopraffini, provati da centinaia di concerti sulle spalle e da vite più o meno sregolate.
Reznor dal canto suo evita di fare il piacione, che proprio non gli si addice. Nessun sorriso farlocco né le classiche frasi di circostanza: si limita a presentare i compagni di palco e le uniche parole (di affetto e riconoscenza) le riserva al Duca Bianco nel presentare "I’m Afraid Of Americans", mai così attuale.
La scenografia è scarna ma risulta comunque spettacolare: niente visuals alle spalle, spesso insulsi e utili soltanto a mascherare la pochezza musicale di tanti “spettacoli”, niente effetti speciali e baracconate kitsch, solo un perfetto gioco di luci e laser con la macchina del fumo che crea nubi da cui musicisti emergono come ombre appena visibili (“e non è colpa mia se esistono spettacoli con fumi e raggi laser”...). Mancavano solo i drappi che si aprivano con gli artisti già posizionati on stage, e avremmo avuto il plastico perfetto di un concerto tipo di trent’anni fa, quando l’estetica era curata in ben altro modo.
Il finale regala altri classici uno dietro l’altro – "The Perfect Drug", "Head Like A Hole" su tutte – e si chiude dopo 90 minuti esatti con l’empirea "Hurt", ormai consolidato atto conclusivo di ogni tour e sempre foriera di qualche lacrimuccia.
Mancava solo quel gioiellino di "The Great Below" per rendere la scaletta perfetta, ma cosa chiedere di più a una band e al buon vecchio Trent, ormai splendido sessantenne? Possiamo discutere una vita sul fatto che i Nine Inch Nails si sia siano “chetati” e che appaiano quasi rassicuranti e molto meno incendiari di una volta, complici quegli esercizi di stile che hanno contraddistinto le incerte produzioni più recenti. Dal vivo, però, restano un big power assoluto per cui vale la pena di spendere soldi a prescindere, anche in presenza di “greatest hits tour” come in fondo è questo Peel It Back.
Loro e i Massive Attack, molto più lontano tutto il resto.
P.S. Menzione speciale per Boys Noize che nel suo dj-set ha incluso il brano "Shame" dei Nitzer Ebb, omaggiando così Douglas McCarty a pochi giorni dalla sua scomparsa. Respect.