Pochi dubbi che il San Fedele e la sua rassegna Inner_Spaces siano una delle certezze più solide che Milano possa offrire. Situato nel cuore di San Babila, in pieno centro e a pochi passi dal Duomo, da oltre dieci anni l'auditorium è divenuto il fulcro della scena ambient e di ogni sua ramificazione immersiva, dall'elettroacustica alla tape-music. Elencare la fitta schiera di artiste e artisti passati di lì è quasi impossibile: da Felicia Atkinson a Christian Fennesz, da Kali Malone a William Basinski, le programmazioni del centro gesuita sono perfino rimbalzate sulle colonne del Guardian, che gli ha dedicato l'illuminante articolo "God Is a DJ".
L'intento dell'auditorium è tanto estetico quanto sacrale: scorgere l'infinito di Dio nell'abisso dell'ambient, e coglierne la magnificenza attraverso il vertiginoso acusmonium Sator, un sistema multicanale con più di cinquanta diffusori. Ogni altoparlante ha una propria identità timbrica, pensata per impreziosire l'esperienza d'ascolto. Un dettaglio decisivo, specie considerando la secchezza acustica della sala, le cui pareti sono state trattate per eliminare riverberi e rifrazioni superflue.
Quello che mi ha colpito della stagione 2024-2025 è la volontà di scandagliare territori perfino ritmici, una scelta che in passato era stata spesso accantonata. Diciamolo chiaramente: proporre performer che, senza troppi dubbi, avrebbero portato sul palco qualche parvenza ritmica non è certo una novità assoluta per il posto, ma in quest'ultimo ciclo sembra diventata un'istanza più frequente. Basti ricordare l'ottimo set dei Demdike Stare, la cui arcana e occulta apparizione è stata una deviazione sghemba rispetto all'austerità liturgica di quelle sale. La serata di lunedì 7 aprile si inserisce pienamente in questa nuova tendenza del programma, che oltre ad accogliere presenze più pulsanti, ha anche inaugurato un bar dove è possibile sorseggiare qualcosa tra una performance e l'altra: un dettaglio tutt'altro che scontato, se paragonato al rigore quasi claustrale delle edizioni precedenti.
Entrati in sala, l'atmosfera è quella di sempre. Il pubblico è composto da persone che la musica la cercano, la inseguono. Non sono lì per caso, ma sanno perfettamente chi si apprestano ad ascoltare. Le esibizioni, previste per le 20:30 ma iniziate dopo un abbondante quarto d'ora accademico, sono come sempre due. La prima, che in realtà è più una spazializzazione su sistema multicanale che un live vero e proprio, propone "Electronic Volume 1 (Recorded Music For Film, Radio & Television)", un'antologia di brevi temi, tra i venti e i quaranta secondi, scritti negli anni Settanta da Tod Dockstader, pioniere della scena elettronica scomparso nel 2015. L'interpretazione acusmatica è affidata a Paolo Castrini, allievo di Giovanni Cospito, già docente di musica elettronica al Conservatorio Giuseppe Verdi, ora in pensione.
I frammenti di Dockstader si presentano come brevi sortite sospese tra library-music e proto-audiovisivo, uno sbuffo meccanico, secco e spigoloso, con vocazione atonale. Forse, però, non era il contesto più adatto per questo tipo di ascolto: il San Fedele ci ha abituati a momenti di assorbimento totale, a stati meditativi sorretti dalla spazializzazione sonora dell'acusmonium, e la brevità di questi abbozzi, oscillanti tra la fabbrica steampunk e la suoneria Nokia, ha dato vita a un ascolto tra i meno immersivi che io ricordi in questo spazio. Alla fine della sequenza, le luci si riaccendono con piglio brutale per il canonico quarto d'ora di intervallo.
Sgranchite le ossa, il pubblico torna al proprio posto, elettrizzato dall'attesa dell'ospite per cui, inequivocabilmente, si trova lì. Uso il singolare perché Sarah Peacock, come annunciato nella prefazione, ha cancellato il tour per motivi personali. Siamo dunque di fronte al solo Mark Clifford, privo di ogni supporto e soprattutto di due mani in meno, che in un live fanno sempre comodo. Il setup è essenziale: un laptop, qualche unità di effetti e la fidata chitarra elettrica. Al suo fianco, le visual di Daniel Cornway: all'inizio si limitano a cerchi non troppo memorabili, ma con il passare dei minuti si fondono con crescente armonia alla musica, trasfigurandosi in astrazioni 8-bit di stregoneria bionica, aderenti alla nube sonora.
Durante la prefazione, il direttore artistico Padre Antonio Pileggi, come sempre spalleggiato dal giornalista musicale e organizzatore Gaetano Scippa, aveva annunciato che il live dei Seefeel si sarebbe concentrato sui due ultimi mini-album, "Everything Square" e "Squared Roots", ma le aspettative sono state felicemente disattese. Nulla contro quelle due uscite, anzi. Ma il percorso è stato più eterogeneo, snodandosi tra i solchi di un repertorio recente ma anche canonico: brani da "Quique" e arsenale vecchia scuola, sospeso tra lirismo post-rock e minimalismo ambient-dub, alternato a centellinazioni macroscopiche delle ultime fatiche. La narrazione sonora è densa e onirica, magnetica ma sempre attenta alla grana del suono, come da sempre nel Dna del progetto.
Forse si percepisce l'assenza di Peacock: per quanto il flusso sonoro fosse coeso, il passaggio da un brano all’altro diventava per l'impegnato Clifford un'occasione per riprendere fiato, trasformando il set in un percorso a onde, un ottovolante fatto di avvolgenti sogni ambient-Idm e momenti di micro-droni esperiti giusto per rimodulare il setup. Ma su questo si può benissimo chiudere un occhio. Intimo e avvolgente, sospeso e visionario, il live del progetto inglese ha letteralmente rapito il pubblico, che, pur seduto, ha iniziato qua e là a muovere la testa in maniera ritmica, cullato dal battito dilatato della bassline trip-hop e dalle trame shoegaze delle chitarre sbriciolate.
A concludere il set, un dono inatteso. Non mi aspettavo che venisse suonato e invece eccolo: "Spangle", un incantesimo subacqueo dove il misticismo sintetico della cassa si intreccia con l'abbraccio rovente del wall-of-sound, sigillando un'esibizione che forse non avrei immaginato in questo luogo, ma che senza dubbio ha conquistato.