Ekatarina Velika

Ljubav

1987 (Pgp Rtb)
new wave, post-punk, art rock

I Šarlo Akrobata, band post-punk dall’indole anarchica e sperimentale, si sciolgono nel 1981, non senza aver segnato profondamente il sottobosco culturale jugoslavo. Il loro cantante e chitarrista, Milan Mladenović, fonda i Katarina II l’anno successivo. Il nome del nuovo progetto è in omaggio a Caterina II di Russia, ma dura un solo album, a causa dell’abbandono del chitarrista, Dragomir “Gagi” Mihajlović. Onde evitare strascichi legali e polemiche, la formazione si rinomina Ekatarina Velika (trad. Caterina la Grande), restando così fedele al personaggio. Affiancano Mladenović il bassista Bojan Pečar e la tastierista Margita Stefanović, mentre il batterista cambia ciclicamente.

 

“Ekatarina Velika” (1985) e “S' vetrom uz lice” (1986) escono per l’etichetta di stato slovena Zkp Rtvlj, che non riesce a garantire loro le tirature desiderate (oggi diversi brani del periodo sono classici del rock locale, ma all’epoca le vendite non vanno oltre le 20mila copie a disco).
Per la registrazione di “Ljubav”, avvenuta fra l’agosto e il settembre del 1987, le cose sembrano tuttavia cambiare: il disco viene distribuito dalla Pgp Rtb di Belgrado [Nota 1], con ben altri mezzi a disposizione. I due gruppi serbi più popolari di quegli anni – Bajaga i Instruktori e Riblja Čorba – incidono entrambi per l’etichetta: la band si direbbe pronta al grande salto.
Qualcosa però non va per il verso giusto: “Ljubav” vende 40mila copie nell’anno di uscita, un risultato dignitoso, ma lungi dalle vette a cui sono abituate le band mainstream. È una cifra che rischia addirittura di distorcerne il ruolo, perché gli Ekatarina Velika – da qui in avanti Ekv, come essi stessi talvolta si presentavano per comodità – non sono stati una band per appassionati come potrebbero esserlo, in Italia, quelle di Giovanni Lindo Ferretti: le loro canzoni sono note alla maggior parte della popolazione.

 

Si potrebbe supporre una rivalutazione postuma dovuta al destino insolitamente tragico che li ha colpiti. I tre membri sono infatti morti prematuramente, in momenti scollegati l’uno dall’altro: Mladenović per tumore fulminante al pancreas nel 1994 (36 anni), Pečar per infarto nel 1998 (38 anni) e Stefanović per complicazioni legate all’Aids nel 2002 (43 anni). Tuttavia non è sufficiente a spiegare come mai la band fosse fra le più seguite del circuito concertistico già all’epoca, mandando esaurito il Kulušić di Zagabria per cinque serate di fila nel 1986 e la Hala Pionir di Belgrado per due nel 1987, o come mai venne invitata nel 1991 allo “Yutel za Mir”, concerto contro la guerra tenutosi a Sarajevo il 28 luglio 1991, in un cartellone che per il resto vedeva solo campioni di vendite.
L’unica soluzione possibile è che gli Ekv ebbero un forte impatto già in diretta. Il fatto che vendessero più biglietti per i concerti che dischi può essere dovuto a una moltitudine di fattori: lo scetticismo della Pgp Rtb a spingerne la promozione una volta esaurite le prime tirature (erano percepiti come un corpo estraneo all’establishment locale); la difficoltà ad attecchire nelle aree rurali a causa dei testi e dell’immagine sofisticata (oggi lo scoglio è superato e ci si può imbattere in loro cover band anche nei villaggi); un pubblico d’inclinazione controculturale e particolarmente giovane, con scarso potere d’acquisto.

“Ljubav” viene registrato a Belgrado e mixato a Zagabria, con la produzione affidata a Theodore Yanni, musicista australiano che segnò in maniera importante la scena jugoslava a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta (lo si rintraccia dietro le quinte dei dischi di Branimir Štulić, Bijelo Dugme, Električni Orgazam e Oktobar 1864). Alla batteria siede Srđan Todorović, proveniente dai Disciplina Kičme e noto anche come attore.

La scaletta è aperta da “Zemlja”, il manifesto dei valori che attraversano la band:
Questa è la terra è per noi,
questa è la terra per tutta la nostra gente,
questa è la casa per noi,
questa è la casa per tutti i nostri bambini.
Guardami, oh, guardami, con gli occhi di un bambino. 
In questa terra vedo la salvezza,
dal sonno mi risveglia una voce che riconosco,
finché i rami accarezzano i nostri corpi,
finché le ombre ci fanno una coperta.
Sento “torna”, 
sento “resta”, 
lasciami.
Sento “torna”, 
sento “resta”,
scusami.
In ogni sconfitta ho visto una parte di libertà,
e quando è finita,
per me, sappi, è proprio allora che è iniziata.
Sento “torna”, 
sento “resta”, 
non andare, no.
“Zemlja” letteralmente significa “terra”, inteso sia come “pianeta”, sia come “suolo”, ma anche, in senso figurato, come “paese”. Questa interpretazione multipla accresce il significato della canzone, anni dopo eseguita durante il sopraccitato “Yutel za Mir”, e da lì mutata in una sorta di inno cosmopolita, contro le divisioni nello spazio jugoslavo. [Nota 2]
Come molti giovani intellettuali della loro generazione, gli Ekv erano convintamente pluralisti e si consideravano jugoslavi. Del resto, pur essendo la band a tutti gli effetti belgradese, basta dare una scandagliata alla vita di Mladenović per comprenderne i sentimenti: suo padre era serbo, sua madre croata, è nato a Zagabria e ha passato l’età scolastica a Sarajevo, prima di spostarsi definitivamente a Belgrado e conoscere gli altri membri della band. 
Il loro desiderio di una Jugoslavia unita escludeva tuttavia l’uso della forza per evitare la disgregazione dello stato, motivo per cui alla dichiarazione di indipendenza delle varie repubbliche si sarebbe semplicemente dovuto prenderne atto: un approccio in aperto contrasto con il nazionalismo che si accresceva in quel periodo, in particolare in Serbia. Allo scoppio della guerra, gli Ekv si sarebbero prodigati in numerose iniziative pacifiste, che ancora oggi li rendono particolarmente benvoluti in Croazia e Bosnia.

Se l’album è tanto importante non è solo per i valori che ha trasmesso ovviamente, ma anche per la posizione che occupa nel percorso di ricerca musicale di Mladenović. I Katarina II si prodigavano in un post-punk oscuro e spigoloso, che risentiva ancora delle sonorità dei Šarlo Akrobata, pur aggiungendo elementi d’atmosfera ripresi dal rock gotico dell’epoca. Diventati Ekv, levigano ulteriormente formula e raggiungono la maturità con l’album “S' vetrom uz lice”, dove la ricerca non è più volta a scelte che possano rivelarsi traumatiche per l’ascoltatore, bensì alla stratificazione del suono e delle strutture, con un post-punk epico e melodico, denso di rivoli di tastiere, chitarre effettate, cori, ma anche sporadiche, sorprendenti sortite nella musica folk sia orientale, sia occidentale.
“Ljubav” non solo ne mantiene il metodo, ma lo amplifica, come immediatamente dimostrato da “Zemlja”, marcia guidata da un riff di chitarra a metà fra post-punk e hard rock, con un sentore di musica indiana dato da un timbro somigliante a quello di un sitar.

“Pored mene” è sia una canzone d’amore, sia una un’analisi dei dubbi causati dall’inasprimento dei sentimenti nazionalisti di cui si diceva: Mladenović si rivolge alla persona amata, ma lo spazio circostante non è un idillio in cui poter coronare la propria relazione, bensì un paesaggio oscuro in cui i due si sentono accerchiati.
Nel crepuscolo le ombre diventano pesanti
e ci strisciano sulle facce.
Lo splendore negli occhi
è profondo e irreale.
Viaggiamo con le parole 
e pensiamo con i passi, 
tu ed io, tu ed io. 
Nel crepuscolo le tue mani fredde
mi accarezzano il petto. 
Dimentico, dimentico
che solo tu sai 
quanti di loro ci sono.
Al mio fianco, sii al mio fianco. 
Nel crepuscolo, so che sai che so 
tutto sulle cose non importanti. 
Dietro la collina c’è un campo, 
dietro il campo c’è un bosco,
dietro il bosco c’è una casa,
dietro la casa c’è una strada, 
che porta a te.
Anche in questo caso si tratta di un post-punk con sfumature hard rock, pur meno marziale del precedente. La strofa ricorre soltanto due volte, all’inizio, dopodiché si susseguono un pre-chorus, il ritornello (la prima volta è accompagnato da una fuga di sintetizzatori, che in seguito non viene ripetuta), un ponte, seguito nuovamente da pre-chorus e ritornello, poi da un’ulteriore divagazione. Verso la fine il pre-chorus viene ridotto a un crescendo corale senza testo. Dovendo schematizzarla si otterrebbe AABCDBCECBC, escludendo dal conteggio le divagazioni strumentali.
La strofa si poggia su un classico giro di Do minore, ma dopo il pre-chorus evolve con tono drammatico, cambiando l’accordo di Mi bemolle da maggiore a minore. Vi è poi una rapida sequenza discendente di note che porta al Do minore e poi al La bemolle maggiore, deviando dalle progressioni più canoniche, che non contemplano il Do minore.
La base strumentale è guidata da due riff, uno di basso, ossessivo e mixato in primo piano (si concede comunque notevoli divagazioni durante la seconda metà), l’altro di chitarra, caratterizzato da un andamento sincopato per tonalità acute: è meno presente, ma fondamentale perché va a inframezzare le parti cantate.
Sorprende come un brano tanto atipico, sia come assetto, sia a livello armonico, risulti scorrevole all’ascolto e facilmente memorizzabile.
 
Anche la title track descrive una relazione amorosa, con versi più tradizionali e romantici, pur senza dimenticare il contesto e trovando spazio per un messaggio di fratellanza verso i popoli jugoslavi. La seconda strofa recita:
E tutti i miei compagni sono da tempo 
anche tuoi compagni. 
Gli antichi slavi avevano il duale 
nel loro dizionario,
e quando voglio dire “io”, 
dico “noi”, 
e quando parlo di me stesso 
in verità penso a noi
Continua l’equilibrio fra new wave e hard rock, con la batteria che si concede dei flam di cassa e dei piccoli assolo reminiscenti dello stile dei Rush. La chitarra suona riff molto pesanti, ma la cui violenza viene smorzata dal massiccio utilizzo dell’effetto flanger. Il ritornello, pur mantenendo il piglio muscolare, vede protagonista la tastiera e non la chitarra. 
La voce di Mladenović mette in mostra questo dualismo fra post-punk e rock classico: spazia dai toni baritonali alle grida più aggressive, passando per il falsetto. Lo stesso utilizzo del vibrato è ambivalente: in parte è quello da crooner alla David Bowie, in parte è hard rock, con un timbro non distante da Ian Gillan.

Il primo lato del vinile si chiude con “7 dana”, crescendo gotico di sei minuti e mezzo, che sorge da atmosferici tappeti di tastiere e culmina in un epico assolo con cui Mladenović veste i panni del guitar hero, riprendendo una figura che nei paesi anglosassoni sembrava non essere compatibile con il post-punk. 
Il testo è firmato da Stefanović e si ritiene tratti, pur in maniera piuttosto ermetica, della sua dipendenza da eroina (i versi sono comunque declinati al maschile, essendo cantati da Mladenović):
Sette giorni da solo 
e giù e su, cercami. 
Sette giorni da solo, 
trova, metti, fammi vedere. 
Lascia che faccia male finché fa male, 
stringi la tua pelle con le mani, 
stringi la mia paura sotto di me, 
spara al sudore con le unghie. 
Ancora questa volta, 
finché cerca e chiama, 
riparerò. 
Ancora qualche volta, 
mentre emana e prega, 
donerò. 
Stringimi, amami, 
prendi in pugno il mio 
collo bagnato. 
Conserva il tempo 
e conservati per me, 
sarei tuo fratello, 
tu sei mio fratello. 
Rompiti, scansati 
da te stesso.
“Voda” inaugura la seconda parte con una poesia paesaggistica, ma laddove l’espediente viene talvolta usato per evadere le tensioni del mondo circostante, i versi di Mladenović sprofondano in una nostalgia fatalista che rimanda agli scenari del romanticismo ottocentesco:
Lascia che l’acqua ti porti all’oblio.
Le coste sono vuote come un deserto
e solo la gente che segue con lo sguardo 
[vede] cosa porta il flusso. 
Gli occhi sono vuoti come un deserto 
e un morso sulle labbra dice 
che qui una volta c’era l’oceano.
Lontane città sull’acqua,
come navi sull’acqua,
tu sai, 
l’acqua porta via tutto.
Il primo verso viene ripetuto come un mantra, quasi sussurato, mentre il resto è intonato a piena voce. Il brano si apre pacatamente con tappeti di tastiere e arpeggi acustici, come a ricreare uno sfondo bucolico ancora una volta inusuale per il post-punk, per poi sfoggiare un ritornello ricamato da un frenetico riff di sintetizzatore e deragliare in una coda psichedelica, con la chitarra che si prodiga in un assolo con denso di wah-wah.
 
“Prvi i poslednji dan” è l’unico momento in scaletta che si avvicina al synth-pop, a causa delle tastiere mixate molto più in alto degli altri strumenti e dell’assenza di chitarre elettriche, mentre “Ljudi iz gradova” è il più serrato a livello ritmico, con una progressione di accordi ascendente per semitoni, accentuata dopo il ritornello anche dal battito in 4/4 scandito all’unisono da tutti gli strumenti.

“Zid” è un folk-rock denso di simboli mistici, guidato da chitarra acustica suonata in sedicesimi, denso di cambi di accordi, caratterizzato dalla presenza di pianoforte e percussioni, nonché da una sequenza di sintetizzatore che emula un timbro vocale, in cui si passa dalla scala dorica delle strofe alla misolidia del ritornello (ancora una volta, un elemento poco comune nella musica pop-rock).
Difficoltoso decifrarne il testo, che sembra rimandare a una figura cristologica, ma essendo noto l’agnosticismo di Mladenović è più probabile si tratti di un gioco metaforico volto a esorcizzare le proprie angosce.
Bacia prima gli sfortunati, 
poi calma gli scalmanati,
cuci i vestitini alle bambole 
e tendi gli archi ai cacciatori.
Trovami, 
nella stanza in cui muore il giorno, 
nelle mie fredde e piovose stanze, 
Sul muro un disegno di un verme nero. 
Guarda il muro,
da uno stato di incoscienza nero, morto, vuoto. 
Siamo liberi, 
io sono nato completamente solo. 
Riconcilia i cani e i gatti con le parole, 
nutri gli affamati con i tuoi occhi 
tocca col palmo gli intoccabili 
e salva noi inafferrabili.
Il vento monta verso le colline, 
una pietra nella collina, il sale nelle viscere. 
Guarda il muro, 
sul muro le ombre dei nostri anni.
In chiusura “Tonemo”, il brano più depresso inciso dagli Ekv fino a quel momento. Rock gotico che contrappone fitte trame di chitarre acustiche a roboanti cariche elettriche mixate in sottofondo, vanta un ritornello strumentale in cui il pianoforte si prodiga in sequenze di note discendenti, quasi a simulare il titolo (“Stiamo affondando”).
Ancora una volta, la disgregazione di una relazione amorosa fa da specchio a quella del mondo jugoslavo:
Abbiamo passato i primi giorni di meraviglia, 
abbiamo passato i primi giorni di sguardi, 
io non sono qui, 
non sono né lì né qui. 
Mentre bevo il succo dai tuoi occhi, 
mentre lecco il sale dalle tue dita, 
stiamo affondando.
Abbiamo passato i primi giorni di bugie, 
abbiamo passato i primi giorni di rimorsi.
No, i giorni non aspettavano molto,
i giorni fuggivano, strisciavano, restavano in aria.
Il 1987 in cui viene pubblicato “Ljubav” è un momento di accelerazione decisiva verso il disfacimento della Jugoslavia. La crisi economica si acuisce, emergono scandali finanziari e crescono inflazione, disoccupazione e scioperi, che alcuni membri dell’élite politica e intellettuale sfruttano per additare capri espiatori e aprirsi spazi di potere e influenza. In particolare, Slobodan Milošević – dopo la celebre visita ai manifestanti serbo-kosovari, di cui si erge a difensore – costruisce il suo potere autocratico e nazionalista nella Repubblica di Serbia.
Con le sue ardite contaminazioni musicali e il suo simbolismo pessimista, l’album risuona come la straordinaria testimonianza di una società che stava vivendo i suoi ultimi momenti di civiltà, barcamenandosi sull’orlo dell’abisso.
 

[Nota 1] La Jugoslavia vantava numerose etichette, tutte controllate dallo stato e più o meno equamente distribuite fra le varie repubbliche. La più grande era la Jugoton, basata a Zagabria, ma la Pgp Rtb seguiva a ruota.
 
[Nota 2] Il successo di “Zemlja” rimane un elemento fondamentale della mitologia che circonda gli Ekv nei paesi post-jugoslavi. È un inno non ufficiale, un’autobiografia generazionale di quella che il critico musicale Ante Perković ha definito la “settima repubblica jugoslava”: quello spazio immaginario di rock e controcultura urbana impaziente di buttare giù censure e dogmi, ma che voleva rimanere unita, e appunto realizzare compiutamente la convivenza e la pluralità del modello jugoslavo. Ancora oggi, lo slogan “la terra per noi” viene usato da attori politici di stampo non-nazionalista. Il Partito Socialdemocratico bosniaco l’ha scelto come slogan nel 2018 e recentemente è stato citato dall’attuale presidente croato Zoran Milanović.

18/09/2022

Tracklist

  1. Zemlja
  2. Pored mene
  3. Ljubav
  4. 7 dana
  5. Voda
  6. Prvi i poslednji dan
  7. Ljudi iz gradova
  8. Zid
  9. Tonemo