Lively Ones

Surf City

1963 (Del-Fi)
instro-surf

Tra il 1961 e il 1964, prima che la British Invasion conquistasse gli States, la California fu il teatro della breve e intensa stagione della surf-music. Come molti sapranno, essa si manifestò con due diversi stili: il surf-rock vocale, erede del doo-wop e delle armonie dei Four Freshmen ed Everly Brothers; il surf-rock strumentale, contenitore di svariate influenze musicali: jazz, blues, rock’n’roll, tradizioni locali americane, ritmi latini e persino echi orientali. Se i Beach Boys furono (insieme a Jan & Dean) i rappresentanti più illustri del primo genere, i Lively Ones furono (insieme al pioniere Dick Dale) tra i più dotati appartenenti al secondo.

Quelli di cui parliamo erano due generi di musica che condividevano lo stesso pubblico ma che, tuttavia, erano come le due facce di una medaglia: tanto lo stile vocale era solare e spensierato, quanto quello strumentale era notturno e introspettivo. Il primo era la musica incarnata nella parola, e rappresentava gli aspetti occidentali della cultura americana. Il secondo era invece il puro fluire della musica, esprimeva le forze delle natura e i retaggi indigeni dell’America. Mentre nello stile vocale c’era una certa tendenza alla paternità d’autore, elemento tipico della tradizione occidentale, in quello strumentale i gruppi si distinsero per le loro capacità di esecuzione e interpretazione, così come nel jazz e nel blues. Il surf vocale scalò le classifiche internazionali grazie ai Beach Boys, mentre la musica strumentale fu spesso confinata nei garage e rimase – come è ancora oggi - una produzione destinata a pochi ma appassionati cultori. Tuttavia, nel corso degli anni 90 anche questo genere ha trovato le luci della ribalta e ha vissuto un inaspettato revival, grazie a "Pulp Fiction" di Quentin Tarantino: insieme a Dick Dale, sono stati proprio i Lively Ones a essere riscoperti con “Surf Rider”, presente anche nell’album di cui stiamo per parlare, e che accompagna la scena conclusiva del film.  

Se ci si volesse fare un'idea del surf-rock strumentale con un solo disco, "Surf City" è quello che potrebbe renderla nel modo migliore. Perché scegliere questo tra decine di album oggi quasi dimenticati? Innanzitutto, per un fattore strettamente tecnico: l’ottima qualità di registrazione, che non è andata perduta nella ristampa in cd. Trattandosi di musica strumentale, così come nel jazz, è indispensabile che la registrazione sia in grado di restituire il suono degli strumenti nel modo più fedele possibile: non è facile trovare un disco surf di quegli anni in cui il sassofono suoni così avvolgente, la chitarra così limpida e cristallina. Ma ciò che più conta è la straordinaria capacità di interpretazione che dimostra il gruppo: la loro dote principale non era nella scrittura di brani inediti, ma nell’esecuzione di pezzi appartenenti a una sorta di repertorio collettivo della musica surf. I Lively Ones riuscirono a conciliare l’irruenza selvaggia di Dick Dale con le loro esecuzioni impeccabili, precise ma senza il rischio di esser piatte e scontate. Jim Masoner (chitarra solista) e compagni erano tutti ottimi musicisti, ed è ancora più evidente se pensiamo che l’album fu registrato senza sovraincisioni: anche questo è un elemento che lo avvicina alla tradizione del jazz; così come lo è il sassofono, il cui uso costante fu per i Lively Ones un carattere distintivo, grazie al talento di Joel Willenbring. 

“Surf City” è uno degli album strumentali più straordinari (e misconosciuti) della storia del rock: quello che va sotto questo titolo è una raccolta di singoli e brani pubblicati nei due album precedenti del gruppo, insieme ad alcune novità. Si tratta, insomma, di un'ottima selezione del repertorio surf ad opera di uno dei gruppi più talentuosi. Sin dalle prime note della title track, infatti, lo stile dei Lively Ones balza subito all’orecchio: “Surf City” era una canzone scritta da Brian Wilson insieme a Jan Berry, diventata poi un hit di Jan & Dean. E’ interessante notare cosa accade nell’esecuzione di un brano appartenente al repertorio vocale: il sassofono segue fedelmente la linea vocale ma, privata della voce e del testo, la canzone cambia sensibilmente fisionomia; diremmo quasi che parla un’altra lingua, puramente strumentale, ma non per questo meno potente e incisiva: nonostante siano sprovviste di parole, o forse proprio per questo motivo, queste canzoni stimolano l’immaginazione e hanno un grande potere evocativo.

In qualsiasi album surf dei tempi, non poteva mancare una versione della “Misirlou” di Dick Dale, e anche questo non fa eccezione. Quella qui presente è però la versione che potremmo considerare come quella "definitiva", per la grande compattezza e precisione dell'impatto sonoro. La più lenta “Sleep Walk” è la cover di un grande successo di Santo & Johnny del '59, ma è il caso di dire che siamo di fronte a un brano più intenso e ispirato rispetto all’originale.
Sul fronte degli originali, le sorpese sono tra le migliori possibili: “Surf Rider” è uno dei classici del surf strumentale, con un giro di chitarra ipnotico, quasi psichedelico ante-litteram. “Tranquilizer” è un altro standard dei Lively Ones, impetuoso come non mai. Ma la vetta dell’album è la malinconica e languida “Malibu Run”, dotata di un grande lirismo strumentale: la chitarra e il sassofono sembrano davvero parlare più intensamente delle stesse parole, evocando qualcosa che proviene da lontano e che risuona come il canto di una divintà pagana dimenticata. Il richiamo delle forze naturali, il mare sopratutto, sembra essere proprio la cifra stilistica del surf strumentale e la sua peculiarità rispetto alla musica vocale. Nonostante i titoli delle canzoni rimandino all'immaginario giovanile dei surfisti, siamo soprattutto di fronte a riferimenti di tipo simbolico.

Già in uso presso alcune tribù di indigeni, e poi diventata lo strumento di uno degli sport americani per eccellenza, la tavola da surf incarna il simbolo della sfida antica tra l’uomo e la natura, quella che all’origine accomunava i pionieri americani con gli abitanti indigeni. “Surf City” diventa allora una città di confine, un luogo dell’immaginario collettivo in cui convivono le due opposte anime dell’America: quella moderna e quella arcaica, quella occidentale e quella indigena, quella culturale e quella naturale. Solo in una terra mitica come la California, in quei favolosi primi anni 60, le due anime sembravano riconciliarsi, forse per l’ultima volta.

02/01/2008

Tracklist

1. Surf City
2. Telstar Surf
3. Heads Up
4. Malibu Run
5. Misirlou
6. Surf Rider
7. Soul Surfer
8. Sleep Walk
9. Crazy Surf
10. Livin'
11. Tranquilizer
12. Forty Miles Of Bad Surf