Il sunshine pop è un genere retrospettivo, identificato e codificato successivamente dalla critica che è riuscita a rilevare i tratti comuni di una scena, esistita nonostante se stessa, distante tanto dalle divagazioni psicotrope della psichedelia quanto da certo pop radiofonico per adulti morigerati. Intorno alla metà degli anni Sessanta, in California, alcuni gruppi - partendo da sound tipici, come il surf rock - cominciarono a sviluppare una forma canzone pop più ambiziosa, con arrangiamenti decisamente articolati, a forti tinte barocche soprattutto nella voce e nei cori utilizzati come veri e propri strumenti musicali al servizio delle atmosfere solari. A fronte di tale complessità compositiva, i testi spingevano invece nettamente verso il disimpegno più sfacciato, ignorando le nuove istanze sociali che cominciavano ad affacciarsi nel pop-rock (bussare a casa Dylan).
I primi gruppi che possiamo identificare come sunshine pop e che, effettivamente, posero le fondamenta di una scena locale, ma non solo, sono probabilmente i Beach Boys (anche se per molti versi rientrano nel genere soltanto per alcune circoscritte canzoni), i Mamas & Papas e gli Association, che nel 1966 si permettevano di coverizzare "One Too Many Mornings" di Bob Dylan trasformandola - diversamente dalla versione originale - in una perla di pura gioia. Con il tempo, sempre più gruppi locali cominciarono ad adottare soluzioni sonore similari, finendo per trasmettere il verbo del sole in luoghi apparentemente remoti come New York, con i Free Design, o addirittura nella piovosa Inghilterra con gli Harmony Grass. Non si trattò comunque di un genere dal grande successo commerciale. Stritolata da una parte dall'avvento della psichedelia - col suo pubblico in cerca di emozioni e visioni decisamente più estreme - e dall'altro dal folk, prediletto dagli animi più intimisti, nei primi anni Settanta la scena si era già esaurita imboccando il viale del dimenticatoio.
Come spesso capita nelle storie musicali, anche quella del sunshine pop pullula di protagonisti dimenticati, talenti perduti e geni diseredati che avrebbero potuto aver miglior considerazione se avessero soltanto accarezzato la seducente pelle del successo. Così fu anche per Curt Boettcher, un Brian Wilson che non è riuscito a diventare Brian Wilson. Malgrado Gary Usher, storico produttore dei Beach Boys, avesse garantito che tra i due non c'era paragone: "Ho lavorato con entrambi. In termini di talento puro, genio e abilità di fare, ascoltare e vedere cose, Curt era anni luce avanti a Brian". Niente male per uno che, fino alla morte avvenuta nel 1987, ha lavorato praticamente dietro le quinte, in cabina di produzione o comunque lontano dai grandi riflettori.
Boettcher aveva conosciuto Usher nel 1966, quando grazie alla sua intercessione riuscì a ottenere un contratto con la Columbia. Curt, che aveva precedentemente collaborato con gli Association e militato nei GoldeBriars, fu subito coinvolto da Usher in un progetto ambizioso di nome Sagittarius che frutterà due dischi, tra cui il fantastico debutto "Present Tense", pubblicato il 3 luglio del 1968. Appena un mese prima un altro loro progetto era stato lanciato con un singolo abbacinante. La canzone si intitolava "It's You", un gaudioso crescendo pop vergato Millennium, e precedeva di qualche settimana l'uscita di "Begin", probabilmente l'apice di un intero genere.
"Begin" è un disco variopinto e frizzante. Melodicamente si beve d'un fiato ma dal punto di vista degli arrangiamenti e, soprattutto, della produzione rivela una gestazione complessa, al punto che Boettcher non volle portarlo in tournée perché riteneva - a ragione - impossibile replicarne il sound dal vivo. I musicisti coinvolti nelle session di registrazione furono nove, diretti magnificamente da Boettcher che fungeva da mentore e guida, suonando la chitarra e alternando la voce a quelle di Lee Mallroy e Sandy Salisbury. Insieme a lui, a curare la veste sonora, c'era Keith Olsen. I due si intendevano a meraviglia: Boettcher architettava le soluzioni sonore, Olsen le attuava concretamente servendosi di due registratori a otto piste riuniti in modo da utilizzarli come fossero un sedici piste. Ricorrendo a ogni sorta di manipolazione dei nastri, Olsen e Boettcher riuscirono a cucire attorno ai quattordici episodi di "Begin" un abito elegante, costituito da strati sonori sovrapposti divinamente armonizzati.
Il risultato di cotanto lavoro è un manifesto ideologico, una preghiera al sole, una categoria dell'anima. È come assistere a un'esplosione di melodie che si arrampicano su loro stesse fino a costruire una gradinata, al termine della quale ci attende Apollo. Dopo un breve preludio, in cui si ascoltano diversi elementi fondanti dell'album, l'orecchio è subito rapito da "To Claudia On Thursday", nella quale Curt riesce a fondere le melodie del sunshine pop, qui evocate dal cantato, con una ritmica che sembra arrivare direttamente dal Brasile. Il risultato è stupefacente, praticamente perfetto, una pop song elegante capace di portarci con la mente su spiagge lontane a piedi nudi e farci vedere il mondo con occhi nuovi.
L'album prosegue infilando una sequenza di piccole gemme melodiche con l'obiettivo di far sorridere la nostra anima, come riesce alla delicata e bellissima "I'm With You", dove si apprezza un lavoro ai cori da far sciogliere anche il cuore più ruvido. O ancora nella struggente "The Island", la quale - grazie ancora alle dolci e delicate linee vocali intessute da Curt - aziona il teletrasporto per un'isola segreta.
La canzone manifesto dell'album, e di un intero modo di approcciarsi alla vita, è "Some Sunny Day", nella quale il tappeto di suoni creato da tastiere estatiche e chitarre leggiadre si impasta splendidamente alle melodie vocali. Sembra "Here Comes The Sun" se i Beatles fossero nati in California, e l'effetto sul nostro stato d'animo è come sempre dirompente. Tra aperture soul da lucciconi di gioia agli occhi ("It Won't Be The Same") e una cantilena bucolica dal sapore rinascimentale ("There Is Nothing More To Say"), c'è spazio anche per la digressione psichedelica di "Karmic Dream Sequence #1", dove Curt mostra parte del suo talento di arrangiatore e demiurgo di sonorità stranianti, che non a caso ritroviamo nei Sagittarius.
Profondamente legato al destino del genere a cui appartiene, "Begin" non riuscirà mai a sfondare dal punto di vista commerciale. Troppo fuori schema rispetto alla musica pensata per aprire le porte della percezione, che andava per la maggiore in quel periodo, e troppo scanzonato per la musica di protesta degli hippie. Considerando anche gli elevatissimi costi che servirono per produrlo, l'unico disco dei Millennium finì per essere un ostacolo alla carriera del suo stesso ideatore, che dopo questo lavoro continuerà solo come produttore e arrangiatore di altri artisti. Curt Boettcher, il "nostro" Brian Wilson.
(03/07/2016)