È opinione diffusa presso molti che gli anni Ottanta siano stati il decennio musicalmente più povero della storia del rock: ovvio, se ci si ferma alla sua superficie patinata e ultra-commerciale (come del resto vale anche per le più celebrate decadi precedenti), ma se si va a scavare, e nemmeno tanto in profondità, si scoprirà che dal cosiddetto mondo "underground" sono scaturite non poche opere autenticamente rivoluzionarie.
Una di queste fu senza dubbio "The Land of Rape and Honey", terza fatica del progetto Ministry, guidato dal geniale e intemperante frontman Al Jourgensen, qui per la prima volta coadiuvato con talento e discrezione dal bravissimo Paul Barker, che sarà suo alter ego per molti anni. Frutto di un'operazione di totale destrutturazione e ricomposizione di generi musicali, l'opera si presenta già dal titolo (che richiama inevitabilmente la soffice "In The Land Of Grey And Pink" dei Caravan), come un autentico manifesto di destabilizzazione delle convenzioni del rock.
I testi, che a prima vista sembrano solo rabbiose arringhe cariche di violenza e misantropia, vanno in realtà a comporre una riflessione profonda e dolorosamente pessimista sulla sempre crescente disumanizzazione della società moderna. Quello ritratto da quest'opera è un mondo afflitto da tirannia e sopraffazione, da rabbia e spietatezza, dove gli uomini stessi si sono trasformati in robot privi di sentimenti ed emozioni. Per rappresentare nella maniera più consona uno scenario tanto apocalittico, Jourgensen e Barker scelgono quindi un approccio musicale all'insegna di un totale e "scientifico" annientamento dei generi musicali più in voga nell'underground del periodo: l'hardcore e il thrash, con la loro violenza diretta e senza compromessi, e l'industrial, che è l'esatto opposto in quanto imparentato con l'avanguardia più cerebrale, ma anche genere tecnologico e "disumano" per eccellenza. Jourgensen capisce che, per quanto tanto lontani, i suddetti stili sono accomunati da quello stesso obiettivo che è anche il suo: la sovversione, totale, radicale e più drastica possibile.
Logico quindi che il duo organizzi il suo album partendo da un approccio più umano, diretto e "hard", fino ad approdare gradualmente a un sound che di umano non ha più nulla, nemmeno più la violenza.
I primi tre brani rappresentano una sequenza che si pone subito ai vertici dell'underground americano del periodo: "Stigmata" parte subito in quarta con una cadenza sporca, brutale e trascinante, con quel riff "artificiale" e la voce filtrata di Jourgensen a condurre sardonicamente la danza; le successive "Missing" e "Deity" si lanciano invece in epilettici, fulminei e maestosi deliri speed metal. È in questi brani che hardcore, thrash e industrial perdono le loro identità e si fondono in un sound totalmente innovativo, sebbene per il momento la componente "rock" abbia ancora il sopravvento. Ma da qui in poi l'album diventa, dal punto di vista tematico, una progressiva marcia verso il trionfo totale dell'inumanità, e musicalmente diventa una sequenza pressoché ininterrotta di autentici capolavori d'avanguardia.
La lunga, straordinaria "Golden Dawn", è una cavalcata mozzafiato attraverso le lande più selvagge e desolate dell'America, condita da campionamenti caotici; "Destruction" è un vero e proprio saggio sulla dissonanza, fatta di controtempi frenetici, clangori sparsi e urla terrificanti ma che sembrano anche perdersi nel vuoto; altro grande capolavoro di (de)costruzione sonora è "Hizbollah", divagazione orientaleggiante, con tanto di canto da muezzin a creare un'atmosfera di straniante esotismo, ma la base ritmica, totalmente sintetica, che avanza implacabile, crea una suspence quasi insostenibile. Si arriva così alla title-track, con la voce di Jourgensen a lanciare invettive sopra un ritmo estenuante, sopra un'altra fittissima pioggia di campionamenti, sopra slogan urlati a squarciagola: l'atmosfera è quella di un comizio da regime totalitario.
Ma è con "You Know What You Are" che la tecnologia prende definitivamente il sopravvento: qui tutti i suoni, in particolare le voci, sono decostruiti, spezzettati, filtrati e totalmente stravolti: il ritmo è dato da una linea di sintetizzatore semplice e avvolgente (e quanto gruppi come i Nine Inch Nails debbano ai Ministry diventa qui davvero evidente), ma a dominare sono gli straordinari effetti vocali, messi in scena con eccezionale senso drammatico: il testo è recitato da un gelido coro di spietati androidi che sferrano il colpo di grazia all'umanità ("ignore the pain, ignore the terror, we saw the tears lost in their eyes"), mentre in sottofondo si agitano una risata beffarda e un'unica, isolata voce umana che urla disperata la frase del titolo. In questi brani i Ministry riescono a mettere in musica il futuro predetto da scrittori come Ballard, Dick o William Gibson, ponendosi come portabandiera musicali del movimento cyberpunk, che nella seconda metà degli anni Ottanta viveva il suo momento di massimo splendore.
La veloce ed efficacissima "I Prefer" è il brano che segna la resa totale dell'umanità ("have you run into the human condition, and i raise the white flag and that's the way i prefer flagellation"). Jourgensen chiude il disco calandosi nelle nevrosi lancinanti di "Flashback", forse il brano più duro e violento dell'intero lavoro, all'insegna di un odio e di una rabbia tanto impotenti quanto terrificanti. In ultimo c'è ancora spazio per uno straniante siparietto strumentale in stile synth-pop come "Abortive". Sardonico addio alle speranze di voi che siete entrati.
Nel complesso questo disco segna una conquista musicale senza precedenti: sposando il rock più sporco e cattivo i fino ad allora elettronici Ministry riuscirono a rendere accessibile al pubblico dei giovani rocker "alternativi" un genere ostico e intellettuale come la musica industriale della scuola britannica (quella dei pionieri Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire); per inverso, quindi, diedero anche alle accezioni più t(h)rash del rock americano una statura colta e innovativa che certo era lontanissima dai presupposti del genere. La loro opera futura sarà coronata anche dal successo commerciale, ma destinata a inaridirsi, sebbene non mancheranno sporadici colpi di coda, dettati dalla classe di due menti disordinatamente geniali: questo album (in coppia con il suo gemello ancora più cattivo, "The Mind Is A Terrible Thing To Taste", edito dopo un anno), resterà il loro capolavoro nonché una delle più grandi testimonianze musicali della fiamma che animava l'underground degli anni Ottanta, lontano dagli occhi di chi guardava al decennio in questione come all'epoca della superficialità e del conformismo.
02/11/2006