Gli Stooges, ovvero il cuore di tenebra di Detroit. La Motor City, città industriale per eccellenza, rivela al mondo il suo underground marcio e nichilista, ergendosi a nuova Mecca per una generazione di proto-punk assetati di sesso, droga e rock'n'roll. Perché è questo, in fondo, che offrono gli Stooges. L'elisir puro del rock, intorbidito però da un'aura perversa e sordida, ereditata dei baccanali più dissoluti dei Velvet Underground e dalla liturgie più inquietanti dei Doors di Jim Morrison.
Iggy Pop e compagni (i due fratelli Ron e Scott Asheton, più il bassista Dave Alexander) interpretano il malessere di una gioventù che proprio in quel momento si sta auto-celebrando a Woodstock. Ma dietro la loro musica, ruvida e malata, non ci sono speranze, né utopie. E' un'inesorabile discesa negli inferi della noia, della decadenza, della perdizione: un nichilistico mal di vivere. "No Fun", che i Sex Pistols non potranno non omaggiare, dedicandole il retro di "Pretty Vacant", ne è il definitivo manifesto.
Corre l'agosto 1969 quando l'Elektra pubblica l'album d'esordio della band, intitolato semplicemente "The Stooges". A produrlo, viene chiamato nientedimeno che John Cale, ormai in rottura con i Velvet Underground e pronto a scommettere sul talento di questa combriccola di sbandati. Ne nasce un disco aspro, ruvido e "garage" nel sound, ma assai meno spartano e rozzo di quanto si potrebbe immaginare. Perché oltre a far deflagrare le loro chitarre sature e a innalzare i loro possenti muri ritmici, gli Stooges sanno anche scrivere canzoni. Con refrain secchi e diretti, che vanno dritti al bersaglio, atmosfere suggestive e un'interpretazione vocale che aggiunge sempre morbosità e magnetismo.
Pronti via, e parte subito un fendente secco come "1969": ritmo boogie ballabile, ritornello conciso rock'n'roll, un basso che pompa sangue, Iggy che urla sguaiato la sua noia: "It's another year for me and you/ Another year with nothing to do". Un inno (i Sisters Of Mercy lo vireranno in tonalità dark) ma è tutto ancora, in un certo senso, "classico". Quasi una versione sporca di Bo Diddley. A portare per mano l'ascoltatore nel mezzo dell'orgia è la successiva "I Wanna Be Your Dog". Tre-accordi-tre di chitarra, per cominciare. E tre minuti di delirio, tra urla, feedback acidissimi e oscene profferte sessuali, suggellati dall'assolo urticante di Asheton. L'ululato cavernoso di Iggy invoca un amore animalesco, totale: "Now I'm ready to close my eyes/ And now I'm ready to close my mind/ And now I'm ready to feel your hand/ And lose my heart on the burning sands/ And now I wanna be your dog".
Dopo aver tirato la tensione allo spasimo, gli Stooges rallentano. Ma "We Will Fall" è un'altra stanza della perdizione, stavolta oscura, asfittica, opprimente: un sabbah psichedelico ripreso da un canto rituale indiano, che si trascina per dieci minuti, con la viola ossessiva di John Cale che non dà tregua, i wah-wah distanti delle chitarre, il recitato straniante di Iggy e i cori d'oltretomba sullo sfondo. E' forse il momento più velvettiano (ma anche doorsiano) del disco, assieme a "Ann", altro bel lento cupo e inquietante: la voce torbida di Iggy annega in un reticolo di chitarre ruvide, e il suo grido stavolta è strozzato, mesto deliquio di un amore impossibile: "I looked into your cool cool eyes/ I felt so fine, I felt so fine/ I floated in your swimming pools/ I felt so weak, I felt so blue". Pura poesia della depravazione. Ma poi la batteria prende quota e la chitarra esplode in una delle distorsioni più lancinanti di sempre.
L'altro inno proto-punk del disco è "No Fun". Ovvero il nichilismo dei Sex Pistols dieci anni prima, a spezzare i sogni di Woodstock. Addio flower-power ed età dell'Acquario. La festa è finita, c'è solo il nulla. Il suono alienato della periferia industriale americana condensato in un pugno di riff, convulsioni e handclapping, con il solito assolo al fulmicotone di Asheton a suggellare il tutto. Rotten & C. non potranno non ricordarsene, dedicandole una cover, sul lato B del singolo "Pretty Vacant".
Anche gli episodi apparentemente minori dell'album svelano una potenza frastornante: "Real Cool Time" è un baccanale di riff abrasivi e drumming forsennato, con l'immancabile solo di Asheton a chiudere; l'altra scarica di adrenalina di "Not Right" e l'incubo a luci rosse di "Little Doll" ricalcano la struttura collaudata - riff primordiali e distorti, bordate del basso, batteria martellante - ad assecondare l'istrionismo vocale di un Iggy sempre alle prese con i suoi deliri lascivi e frustrati.
Nonostante il clamore, però, il disco non sfonda: le vendite non sono proprio all'altezza delle aspettative, anche se quei fortunati trentacinquemila, per dirla con Eno, saranno probabilmente diventati tutti musicisti, come quanti acquistarono "VU & Nico". Eppure già si percepisce che si è di fronte a un "classico". Il sound degli Stooges, infatti, è privo di ogni connotazione temporale. La voce di Iggy ricorda quella di un Mick Jagger ancora più sporco e depravato. Il suono della chitarra di Ron Asheton è disintegrato, distorto, inconfondibile.
Insieme ai concittadini Mc5, Iggy & The Stooges diverranno le icone post-summer-of-love di un movimento che celebra il degrado morale e psichico della razza umana, auto-erigendosi come "borderliner" di una società votata al consumismo e all'estremo culto del benessere.
Ma è soprattutto musicalmente che "The Stooges" si rivelerà uno snodo cruciale, fomentando la riscossa garage degli anni a venire e fungendo da pietra angolare definitiva per la generazione punk-wave.
Gli Stooges colpiranno ancora, con altri due fendenti rock da ko immediato ("Funhouse" e "Raw Power"). Poi, sciolta la band, Iggy Pop entrerà in un baratro di droghe, ricoveri e devastazioni psichiche. Rinascerà a nuova vita alla corte del Duca Bowie che apporrà il suo marchio su "The Idiot" e "Lust For Life", regalandogli una nuova stagione di fasti.
12/11/2006