Alla fine del 2004, il trio di San Francisco si trova già a dover fare i conti con la propria brevissima storia. A prendere, in pratica, la topica decisione su quale direzione imboccare. L'album d'esordio, troppo rapidamente elogiato e altrettanto vituperato in un contesto indie affollato e facilmente entusiasmabile, aveva gettato le basi per un percorso rock senza (grossi) compromessi. Colpì la personalità quasi rurale, grezza e istintiva che in sostanza permise ai Black Rebel di emergere dal calderone indie di cui sopra. Lo stile, in verità, già allora mostrava una pericolosa attitudine a mutare pelle meglio di un mocassino acquatico. Peccati di gioventù, disse qualcuno.
Con il secondo lavoro, sottotono o forse semplicemente oltremisura diverso da quello che ci si aspettava, l'attenzione per questi californiani seguaci dell'ideologia (quantomeno) visiva di Brando Marlon cominciò a subire una leggera flessione. Probabilmente non più domati da un certo modo di fare musica, e liberi di non dover costruire cose come l'hype, i Black Rebel Motorcycle Club recuperano parte del loro retroterra spontaneo per "Howl". L'inizio con "Shuffle Your Feet", quasi un manifesto concettuale delle dodici tracce seguenti, è la prima avvisaglia del nuovo corso della band. Chitarre rigorosamente acustiche, dal suono pulito, compatto e ritmico come nella più pura tradizione post-Nashville, cadenzano un cantato collettivo squisitamente working men blues.
Ma l'intento dei Black Rebel sembra essere soprattutto quello di stupire, di spiazzare, e "Howl", ballata agrodolce forse non casualmente seconda nella tracklist, risuona volutamente come un elemento estraneo, ripescando senza indugi quello che c'era di buono in "Take Them On, On Your Own". L'anima spiritual del disco, comprovata da ballate come "Devil's Waitin'", scritta appositamente per essere mormorata attorno un fuoco in una splendida e un po' fredda notte di fine autunno, "Fault Line" e "Promise", trova la sua completa consacrazione in "Restless Sinner", il brano che forse meglio di tutti gli altri rastrella la malinconia, il senso di libertà, la nostalgia congenita dell'album.
Ma "Howl" non è (solo) una raccolta di ballate folk rubacchiate con rispetto a Robert Leroy Johnson (inclusa l'eterea "Still Suspicion Holds You Tight"), e a suggellare tale idea troviamo "Ain't No Easy Way", estemporanea cavalcata country & western alla Willie Nelson, e "Weight Of The World", l'unico episodio dichiaratamente pop dell'album. Il basso di Turner si mantiene su livelli discreti, garantendo un registro costante ed equilibrato, mentre il buon Nick Jago, a causa dell'impronta ordinaria e puramente d'accompagnamento della sezione ritmica, risulta un po' sacrificato. Naturalmente, sono le chitarre a spadroneggiare, e Hayes non delude. L'epilogo, modulato ancora dalle armoniche, scopre altri brani degni di nota, nonostante la quasi totale assenza di originalità ("Complicated Situation"), o il rock melodico ed easy di "Sympathetic Noose".
La fine, che riscatta sufficientemente alcuni passi meno convincenti ("Gospel Song"), è tutta per "The Line", tormentata ballata che evidenzia i miglioramenti della voce di Robert Turner. Interessante, last but not least, la ghost track romantica e struggente, una specie di inno poetico e disincantato, con cui i Black Rebel Motorcycle Club si congedano.
In ultima analisi, "Howl" risulta un album nel complesso piacevole all'ascolto, per buona parte scritto con il cuore, e che vince la sfida di far riecheggiare, in chiave moderna o se vogliamo aggiornata, il sound schietto e sincero della grande tradizione folk-blues americana. Anche nei testi, quantunque non esaltanti, si avverte prepotente il desiderio di scovare una dimensione semplice e serena (questo forse il motivo della massiccia presenza di ballate rispetto a brani rabbiosi). I Black Rebel Motorcycle Club hanno abbandonato l'impolverata (e speculata) Route 66 a favore di territori ancora più estesi ma al contempo più intimi, dove vivere semplicemente in compagnia di una buona chitarra. Punto.
(26/09/2005)