Alla faccia della vetusta maestra che, alle elementari, suscitava timori e pregiudizi, somministrando preghierine serali, affinché il mostro grigio, congelato, stoicamente e politicamente corrucciato dell'Unione Sovietica non venisse a mangiare i bambini italiani, secondo un'iconografia incompleta e apocalittica, alla faccia dei piccoli traumi infantili "Gipsy Punks Underdog World Strike", del collettivo Gogol Bordello. L'acrobata ebbro Eugene Hutz, in fuga dal disastro Chernobyl, dopo un girovagare degno del miglior nomadismo, approda a New York. La fermata sortisce inaspettati accadimenti: il russo incontra altri artisti profughi dell'Est europeo, finalmente liberi di esprimere senza contenimento alcuno le proprie velleità; dalla casualità nasce il progetto Gogol Bordello, il cui nome ben esprime lo spirito surreale (la citazione dello scrittore ucraino Nikolaj Gogol) da un lato, e una sorta di goliardia di fondo (il riferimento al luogo di piacere) dall'altro.
Gogol Bordello è colore/calore, circo/giostra, etno/punk, apparentemente un'improbabile mistura di chincaglierie kitsch e sbornie di vodka, straccetti strappati e urla irate, in realtà ensemble di tutto rispetto, capace di dosare bene gli ingredienti e rendere il tutto divertente, irriverente, e salvo dal deja vu. "Gipsy Punks Underdog World Strike", terzo disco, veicolato dall'incursione cinematografica di Hutz, accanto a Elijah Wodd nel film "Everything Is Illuminated" (tratto dal romanzo di Jonathan Safran Foer) e registrato in analogico negli studi di Steve Albini, racconta piccole storie di immigrati ribelli catapultati in realtà metropolitane.
L'energia è tanta, la danza diviene istintiva, il meltin' pot stupisce. Nella prima metà delle 15 tracce, si passa da aperture balcaniche cantate con furia ("Sally") e atmosfere stemperate da spunti rock ("Not A Crime" ), a ritornelli/manifesto iniettati di basso ("Immigrant Punk") e acidi episodi realizzati alla stregua di un Goran Bregovic su di giri ("Dogs Were Barking").
Nella seconda parte vagheggia lo spirito del nostrano Vinicio Capossela dei momenti più ironici ("Start Wearing Purple"), provocazioni no-global ("Think Locally, Fuck Globally") e irruzioni alla Clash nella title track (stramba orchestra etno/punk a un matrimonio anglo/rom), bestemmie da osteria rimembranti i passaggi in Italia ("Santa Marinella") e chiusure/gioco di violini a ingentilire la ritmica accelerata, rendendola romantico declamare bohemienne.
Eugene Hutz, con i suoi Gogol Bordello, scivola, senza difficoltà alcuna, nelle pieghe della world-music, pur mantenendo con dignità uno status assolutamente sui generis, per via delle contaminazioni atipiche e delle incursioni nella tradizione punk; ma soprattutto sdrammatizza certi luoghi comuni divenuti ormai simulacri stantii della cultura no-global, sdoganandola dagli irrigidimenti in regole auree, ironicamente rivedute e corrette, con esiti schiettamente anarcoidi e goderecci, uno per tutti: "Think locally, fuck globally", privo di ogni velleità nazional-popolare.