I Sun Kil Moon sono la seconda creatura del grandissimo Mark Kozelek, voce ed anima di uno dei migliori act degli anni 90, i Red House Painters.
La linea di continuità fra le due band è più che evidente: la metà dei musicisti è in comune (Anthony Koutsos oltre a Kozelek) e l'altra metà (Mooney e Stanfield) è stata ripescata dalle ceneri degli American Music Club, tra le principali influenze di quel che poi sarebbe divenuto il suono degli stessi Red House Painters.
Il risultato è che l’umore che permea il disco finisce per essere la solita poetica dimessa e solitaria del leader: il che, per uno che quei dischi lì se li porta dentro, non può essere che un bene.
"Tiny Cities" è la seconda prova della nuova band, ed è il secondo album di cover a tema di Kozelek ("What’s Next to the Moon", del 2001, rileggeva brani degli AC/DC!), questa volta dedicato al repertorio di un’altra band di valore dei 90, i Modest Mouse.
Servono ben poche parole a descriverla.
Basta già l’ intro di "Exit Does Not Exist" a far capire che ci aspetta tutto ciò che doveva aspettarci. Più che a una canzone (o a un accenno di) ci troviamo dinanzi a una descrizione di una nave fantasma, ambientazione spettrale per composizione scheletrica, la voce di Kozelek a regnare bassa, ormai evidentemente invecchiata, tanto da sfiorare il lamento, eppure sempre bellissima, incantevole, profonda.
Le premesse sono abbastanza buone: "Tiny Cities Made of Ashes" è un lento sussurrato, sui classici giri di chitarra, qualche nota di piano e un soffio impercettibile di violino a colorare un'aria al confine del saggio racconto.
La preghiera di "Neverending Math Equation", accorata seppur a voce bassa, scandita da colpi di batteria, piglio vagamente country; e "Space Travel Is Boring", il canto di un licantropo, in tono ultradimesso, desolatissimo e affogato nell'accompagnamento di violini, concretizzano le attese, rivelandosi buone riletture.
Il problema di "Tiny Cities" è che il disco finisce qui, dato che seguono più che altro bozzetti poco riusciti.
La tenerezza dei giri sconsolati di "Dramamine" si spegne in un passaggio anonimo e ad alto rischio tedio; "Jesus Christ Was an Only Child" tenta la carta del romanticismo spinto ma bluffa; "Grey Ice Water" resta tutto il tempo indecisa fra gran ballo e numero folk, non convincendo in nessuno dei due versanti.
Il cupo soffio di "Convenient Parking", recitato su un chitarrismo alla Fahey, sorprende per l’impatto solo al primo acchitto, poi si lascia dimenticare troppo facilmente.
Si salva giusto qualche impennata melodica come quella che scuote la, altrimenti priva di afflato, serenata di “Four Fingered Fisherman”, che inquadra perfettamente come questo si riveli essere soprattutto disco di rimpianti; o la delicatezza con cui vengono presentati alcuni passaggi come la malinconia terminale di “Ocean Breathless Salty”.
I Sun Kil Moon praticamente non esistono in questo disco, sono giusto un nome per celare le tre note di accompagnamento al solo di Kozelek, che prende le melodie altrui come spunto per passare tutto il disco a cantarsi addosso.
Il passato è passato, e se questo dev’essere il presente a me, sinceramente, va anche bene così.
Solo chiederei un po’ di sostanza in più e non la miseria di due/tre brani soddisfacenti e una manciata di miniature o filler a riempire la durata totale di mezz’ora striminzita.
Piacerà agli amanti che ci troveranno qualcosa di buono (e ce lo troveranno sempre con queste corde vocali): gli altri, purtroppo, possono farne tranquillamente a meno.