Se “Infiniheart” era stata la rivelazione di un talento, “Skelliconnection” ne è oggi necessaria conferma, pur senza riprodurre in toto la magia del suo predecessore. Chad Van Gaalen è, insomma, un’artista di tutto rispetto, che ha elevato l’autarchia artistica (suona e produce tutto da solo) a divinità personale.
Canadese di Calgary, Chad continua a registrare, nella sua stanza-studio, canzoni su canzoni, scegliendo di volta in volta quelle che ritiene essere degne di rappresentarlo in giro per il mondo. Un folksinger , nella sostanza. Ma la forma ci parla di un universo multidirezionale, di un patchwork gioioso dove convivono senza troppi screzi pop, rock, jazz, country e persino un’elettronica dall’anima lo-fi (si veda il curioso scherzo percussivo di “Systemic Heart” e quello, con piano fratturato, di “Dandruff”).
L’immersione è di quelle tenere e rassicuranti, con un pizzicato di chitarra e una voce flebile (tra svolazzi di flauto e linee sinuose d’archi) che disegnano uno scenario tipicamente indie-folk (“Sing Me To Sleep”), anche se, poi, lo shock-rock di “Flower Gardens”, schiumante di elettricità e pestato con ardore post-punk, ci ricordano subito che, da queste parti, la bussola tende a impazzire senza preavviso. Così, se l’algida e scandita “Graveyard” e la stramba folktronica di “Mini Tvs” richiamano alla mente il connazionale Neil Young (efebico e dimesso, nella prima; menestrello languido, nella seconda) e “Rolling Thunder” ha qualcosa da spartire con un certo David Crosby, la gita fuori bordo su navicella poppy & acid di “Gubbish” dimostra un gusto straniato per un melodismo incantevole e seducente.
In chiave distorta, la solennità quasi mistica di uno stomp come “Dead Ends”; in chiave sintetica, l’avvolgente e palpitante “Red Hot Drops”; in chiave country, il battimano indotto, con tracce di Sam Roberts, di “Wind Driving Dogs”. Ce n’è per tutti i gusti, insomma. Basta solo lasciarsi prendere per mano, senza opporre troppa resistenza. Certo, non tutti i brani hanno la stessa forza contagiosa (la psichdelica e pastorale “See Thru Skin”, ad esempio; ma anche il divertissement strumentale di “Viking Rainbows” — o gli stessi bozzetti lo-fi electronic di cui più sopra), e, come dicevamo, la compattezza di “Infiniheart” è solo sfiorata.
Ma bisogna accontentarsi, perché dopo tutto lo sappiamo: queste sono solo 15 delle decine di canzoni che il Nostro ancora nasconde nella sua casetta (di campagna?). Nel frattempo, e non è poco, ci restano ancora la scorrazzante “Burn To Ash” (puntellata da tastierine dispettose) e il banjo zoppicante della tremante “Wing Finger” che, tra xilofono e timida trombetta, saluta tutti e rimanda alla prossima cernita di piccole, grandi canzoni.
03/10/2006