Avete mai visto sfiorire con dignità uno dei vostri gruppi preferiti? Quante delle band che hanno segnato la vostra crescita musicale hanno già raggiunto la Maturità Artistica (cioè il periodo in cui il giudizio sui loro nuovi album va da "noioso" a "considerato che hanno detto già tutto non è niente male")? I Motorpsycho hanno segnato gli anni Novanta con un pugno di album memorabili e almeno un capolavoro ("Timothy's Monster" del 1994). Giunti all'apice della creatività, non potevano che rilassarsi, e così mi pare sia stato, nella loro vicenda discografica posteriore all'anno 2000 (considero "Let Them Eat Cake" l'ultimo album seminalmente e imprescindibilmente eccetera della loro carriera). A un certo punto hanno perso per strada Hakøn Gebhardt, batterista e tassello fondamentale nell'architettura della band, e hanno deciso di "tornare alle origini".
Il summenzionato ritorno alle origini si è tradotto nel presente "Black Hole/Black Canvas", album doppio in cui Bent Saether e Snah Ryan (gli unici superstiti della truppa motorpsichedelica, che negli hanni ha arruolato anche un personaggio come Helge Sten, in arte Deathprod, al momento colonna portante dei Supersilent) danno sfogo alla logorrea che, nel bene e nel male, ha sempre contraddistinto la loro carriera, e mi offrono l'opportunità di snocciolare qualche altro luogo comune. Per esempio: l'album doppio se lo potevano risparmiare, "tanto valeva eliminare qualche pezzo e concentrarsi su quelli migliori".
I due dischi in cui sono distribuiti gli ottanta e passa minuti di "Black Hole/Blank Canvas" contengono pochi brani davvero memorabili (il pop heavy di "In Our Tree" o "Hyena", le ballate di qualità superiore "The 29th Bulletin" e "Before The Flood"), più una serie di riempitivi di lusso, belli ma già sentiti, e non pochi passaggi a vuoto/plagi del vecchio repertorio (le cavalcate psichedeliche, la pop-song pesante, e via dicendo). Come se si trattasse, anziché di un album inedito, di una compilation di outtake, periodo 1994-2000.
I fan affezionati della band troveranno più di un richiamo all'epoca di "Angels and Daemons at Play" nei pezzi pop che esplodono in frammenti space-prog ("Kill Devil Hills", "Triggerman"); riff heavy di epoca "Trust Us" (i tormentoni pentatonici di "Coalmine Pony" o "L.T.E.C.", per esempio); più di un richiamo all'elettricità di "Blissard" ("Sail On", "The Ace") o a certe cavalcate psych-pop dell'ultimo periodo.
Insomma, pare che per una volta i nostri prodi non abbiano azzeccato la scelta dell'album doppio: in altre occasioni, a giustificare una mossa così sfrontata c'erano uno stato di grazia assoluto ("Timothy's Monster", il momento in cui i Motorpsycho riuscirono a fondere davvero, e senza sbavature, indierock, psichedelia cosmica, hard&heavy e scrittura di classe), o un'irrequietezza indomabile da "live band" impadronitasi del controllo dello studio (come in "Trust Us", specchio fedele dei Motorpsycho più seventies). In questo caso siamo di fronte a una coppia di autori e performer troppo smaniosi di dire qualcosa e perciò poco concentrati sulla proverbiale "economia della scaletta" e sulla riuscita di un album che così com'è soddisfa appena il fan ma lascia perplesso l'ascoltatore occasionale, e in generale segna un'occasione persa per dare alle stampe l'album "maturo", "lontano dai fasti di un tempo ma ancora brillante e propositivo" (a proposito di luoghi comuni, no?).
03/04/2006