La prima cosa che di questo disco d’esordio colpisce – e lascia il segno – è l’incredibile voce di questa musicista francese, ormai da anni trapiantata in Italia.Questa voce dal registro basso, originalissima, insolitamente modulata, dolcemente sensuale e personale canta struggenti melodie, da lei stessa composte, addirittura usando tre lingue: il francese, l’italiano e persino il dialetto friulano in alcuni brani ove evidentemente Priska ha voluto regalare un insolito omaggio alla terra che la ospita da anni.
Già la copertina viola, dal sapore d’altri tempi, evoluta in una confezione complessa e artigianale che ricorda alcuni visual della Constellation o della Fancy Records, mette il fruitore di fronte a un prodotto non certo convenzionale. Una citazione colta in latino dal Cantico dei Cantici conduce le aspettative verso un lavoro complesso e colto. Invece si tratta di un’opera dolce e amara di una formale semplicità naïve, ma che proprio per questo cattura l’ascoltatore in una peculiare atmosfera magica e trasfigurata.
Arpeggi di chitarre acustiche cremisi introducono flauti, violini solitari, suoni marini per un brano come “Echi”, poi gocce di veleno, potente e raro, inoculate in brani velatamente maledetti, avvolti da brume muschiose, da corde tese come in “Zeta”. La voce si muove con tale fascino e magia da rendere quasi inintellegibili i testi. Le melodie si infettano di spettri. Momenti struggenti di introspezione narrativa pervasi da avide lamie. I brani si susseguono in arabeschi tessuti tra le tinte cremisi e indaco suggerite dal packaging. Peccato che i testi – unica imperfezione in questo disco così strano e incantato – non siano sempre all’altezza della musica, restando alcune volte piuttosto distaccati. Poco importa la lingua. Tanto intensa è l’interpretazione vocale che le parole cantate cadono in secondo piano rispetto alle melodie e la musica davvero straordinarie.
Se il folk è la base dalla quale la musicista francese parte, certamente viene presto tradito anzi, transustanziato in favore di una formula-canzone dalla struttura classica ove ben si nota la formazione, appunto, classica di Priska: non tanto dall’uso della chitarra a corde di nylon, o spagnola, ma dalla struttura insolita delle melodie che svettano con personale forza evocativa da armonie piuttosto semplici e per questo, forse, così magnetiche ed estatiche. Restano nella mente e nel cuore dell’ascoltatore.
Gli arrangiamenti sono minimali, pieni di grazie, raccoglimento; in brani come “Hameçon” il percorso assume caratteri di iniziazione. Veramente singolare.
Certamente sentiremo parlare ancora di un talento così grande: sono giunte voci di una sua partecipazione a un tributo italiano per il 40° di “Sgt. Pepper’s” così come di una probabile imminente collaborazione di Priska a un progetto del poeta inglese Peter Sinfield, mente assieme a Greg Lake dei primi King Crimson. Una prospettiva entusiasmante poiché – in alcuni momenti – proprio ai brani acustici del gruppo inglese si possono avvicinare certe atmosfere, più per affinità elettive che per reale somiglianza. Nico, Bridget St.John, Karen Beth alcune delle voci del passato che possono rammentare quella di Priska, sebbene la forte personalità della francese renda assai difficile ogni paragone.
Da sottolineare come ogni canzone di questo disco così strano costituisca un microcosmo a sé, sebbene legate tra loro da un evidente progetto generale e portando un marchio che le rende immediatamente identificabili, non fosse che per la voce stessa. Come un almanacco di racconti intriganti, questo è un disco da non consumare in fretta. Non possiamo che augurare a questa esordiente di così singolare talento il successo che si merita e che certamente non tarderà ad arrivare.
* Ha collaborato Giuseppe Federico
01/05/2007