Ancorché sconosciuti alla critica e a qualsivoglia tipologia di pubblico, gli australiani Devastations insistono stolidamente alla ricerca della consacrazione. Due album, un sostanzioso grappolo di belle canzoni e qualche peccato d'ingenuità di troppo. Le loro ballate tenebrose a metà fra pop e rock, ovvi i riferimenti del caso (Nick Cave, Tindersticks, Black Heart Procession). Questo prima di "Yes, U".
Già, perchè a dispetto del battage pubblicitario pressoché nullo, il trio di belle speranze è riuscito a fare il grande passo, a scavallare l'ostacolo che separa una buona band da una band, mi si permetta, coi controcazzi.
Esemplare la copertina nera con su il solo titolo sputato. Rinnegati gli afflati romantici, croce e delizia dei lavori giovanili; i fari opachi puntati su un melodismo più che mai oscuro e introverso, la dilatazione dei brani (fra i quattro e i sette minuti), la maturità strumentale e formale (quando far entrare lo strumento x e come). I Devastations compiono una scelta, prendono una via. Lasciano indietro qualcosa, e vabbè; ma tutto ciò che fanno, lo fanno maledettamente bene.
La lunga epopea di "Oh Me, Oh My" recupera i battiti secchi e le pennate slo-core dei Low di "Trust", salvo sciogliere il sofferto strazio in massimo dono ("You can ask me everything, I'll tell you anything"). Gli impasti di elettronica e rock in "The Pest" richiamano i migliori Bark Psychosis; il basso liquido di "An Avalanche of Stars" recupera suggestioni wave. Necessario citare, per il valore, gli unici due a-tipi: la pseudo-hit "Mistakes", in cui sublimano i sentori pop; la deliziosa e tenera "The Face of Love" su cui vengono scaricate le sconcezze romantiche.
Disco subdolo e scafato, come la voce che ne declama la linee sinuose, "Yes, U" ha tutte le carte in regola per convincere un'ampia fascia di ascoltatori. I Devastations possono prenotarsi un posto fra le più liete sorprese dell'anno; andasse male la colpa sarebbe esclusivamente del loro direttore marketing.
15/09/2007