Burnt Friedman è una di quelle prostitute molto gettonate negli ambienti avant, vicina tanto a clienti facoltosi tipo David Sylvian, quanto alla solitudine intellettuale di riflessioni compiute in disparte. Così è noto ai meno per qualche moniker interessante tipo Drome o Nonplace Urban Field, ai più per le sue collaborazioni con l’ex leader dei Japan sul progetto Nine Horses, manco chissà quanto memorabile a dire il vero, e con Jaki Liebezeit.
E’ un tedescone solitamente alle prese con le classiche tastiere in voga nella Germania degli ultimi trent’anni, ma per la realizzazione di questo disco si è dato a tutto, dal drum programming al basso, passando per le percussioni e il canto (solo nella traccia 2). E’ diventato un uomo completo, insomma, pronto a sfornare il mai male accetto lavoro della maturità, stupendo finanche chi, come me, certe cose vicine a Matusalemme per immagine e passato, le guarda quasi sempre con occhio titubante. Altro che, questo è un prorogarsi della prima notte in un insieme sconvolgente di graffi, frustini, ansie, pause e dichiarazioni d’amore. Senza batter ciglio.
E a questo festino hanno partecipato fidi amici dell’ambiente teutonico di “questi” tempi, quali Barbara Panther e Daniel Dodd-Ellis, pen friend d’oltremare come Steve Spacek (dalla terra dei canguri), Enik e vere e proprie mummie ben tenute nella figura di Theo Altenberg, uno che negli anni 70 cantava nei locali viennesi e berlinesi, scarabocchiando con la sua voce tanti poster di James Brown. Un divertissement di qualità, mai scaduto nella decadenza di un b-movie.
Scendere nei particolari ora, significa fare la cronistoria di una nobile indianata, prestando attenzione alla grande varietà di materiale. Sostanzialmente, “First Night Forever” è ciò che il soul è davvero diventato nel mondo promiscuo di programmazioni e “campionamenti”, altro che le solite riedizioni in chiave trip-hop…
“First Night Forever” scarnifica le tempeste di strumenti, posiziona una chitarra a stoppare, un basso a girare, un uomo o una donna a cantare, una tastiera o un alito a fiatare e una base costruita a martellare (quando occorre). Forse è la sintesi di un’epoca ibrida in cui le cose vanno dette sottovoce e poco a poco per fare meta, con una mano sul fegato e un’altra sulla fronte a scalfire l’impenetrabilità delle forme di comunicazione gestuale. Sì, tanti gesti ruotano attorno alle musiche, li immagini che si confondano o si perdano.
Non è un lavoro da dancefloor, ma da lounge bar in camera mortuaria, imploso com’è nelle voci cupe provenienti da Marte o nelle improvvise e mai sconclusionate trance sonore. Ci sono molteplici "do-re-mi-fa-sol" inclusi a mo’ di cellula pazza, comparsi e annientatisi nel nulla solo per dimostrare di esserci stati, anche se dopo non molto li colleghi a qualcos’altro. E’ un disco incredibile per senso d’unità e profondo gioco d’anima.
Sembra di ascoltare delle versioni ultraterrene e moderne di Prince (“Where Should I Go” e “Walk With Me”, con Steve Spacek al canto), dualismi bastardi in stile Tom Waits Vs. Peter Tosh (“Need Is All You Love”) o James Brown Vs. Joe Cocker (“Healer”), entrambi con Theo Altenberg alle voci.
I pezzi con Enik (“Western Smoke”, “Thumb Second”) sono vicini a un certo jazz atmosferico rivissuto in chiave funky, mentre quello con la Panther dal cognome subliminale (“Machine In The Ghost”) trita Lisa Germano e Billie Holiday in uno schiacciapatate electro.
Al di là di nomi e cognomi, la struttura è indubbiamente persa in un suono elettronico di contorno, molto spesso impercettibile. C’è tanta classe in ogni anfratto, ci sono stimoli e movimenti in sussulto che spaesano ma non distraggono. C’è un modo nuovo di concepire il funk. Una delle perle di quest’annata, direttamente dal baule del galeone.
(15/11/2007)