Il folk-rock è un genere costellato da piccole gemme, capolavori di assoluta, straniante bellezza, spesso fuori dal tempo. E’ così da sempre. Ricordo quando scoprivamo, quasi trent’anni fa, tardivamente, gioielli allora assai poco conosciuti come “Myrrh” di Robin Williamson o “The Hangman’s Beautiful Daughter”, sempre dell’Incredible String Band o altre perle come il disco d’esordio del duo canadese Fraser & Debolt.
Allora non c’erano internet né i mail order e trovare certi dischi era una impresa titanica. Questo è un periodo assai fecondo per la musica pop di qualità, secondo forse all’aureo periodo 1966-1972, in più, grazie a internet, è facile procurarsi anche oscure gemme come questo album.
Quindi, si diceva, oggi non è poi così raro scoprire tesori sepolti tra i tanti dischi che vengono con facilità stampati anche in piccole tirature per il mondo. Ma questo album d’esordio dei Mountain Home, seconda uscita per l’etichetta di Greg Weeks degli Espers, è un capitolo a parte, un capolavoro veramente singolare, senza tempo: potrebbe benissimo essere un disco del 1970.
E acuta infatti è stata la produzione di Greg che ha cercato proprio di creare qual limpido pathos “vintage” che altro non fa che rendere più autenticamente naïve un disco già di per sé incantato.
Mountain Home è una band formata quasi per caso da Ilya Monosov (banjo, chitarra acustica, hurdy gurdy), che ha contattato Joshua Blatchley (vocals, chitarra acustica, harmonium) per rimpiazzare per una data un elemento del suo gruppo, alle prese con l’influenza. Blatchey portò elementi sperimentali che si fusero assai bene con l’acustica di Monosov. Il sound ha intrigato la compagna Kristin Sherer, che ha deciso di unirsi nella nuova avventura.
Motivi old time, influenze folk dai monti Appalachi, influenze psichedeliche, di songwriting dylaniano e mille altre suggestioni, che strumenti come dulcimer, harmonium e hurdy-gurdy possono suggerire, confluiscono in questo mix straordinario e personale, sebbene richiami molti dei dischi del passato.
L’iniziale “The Sparrow” è una ballad acustica che potrebbe essere tratta da un disco di Shirley Collins, se non fosse per la voce trattata con echi e riverberi che ricordano un po’ i lavori solisti di Judy Dyble. Un violino languido canta una triste elegia. Come gli altri brani, tranne gli ultimi due tradizionali, sono firmati dal duo Sherer/ Blatchley.
“Battle, We Were” presenta atmosfere ancora più dilatate, con intrecci di chitarre acustiche, con licks di elettrica dal tremolo 60s, mentre “Comes, The Winter”, dall’avvio rumoristico, è brano più sperimentale, che fonde avanguardia e tradizione old-time: uno degli episodi migliori.
La voce bellissima di Kristin Sherer rende uniche le trasognate atmosfere dei brani che si susseguono come stanze di un unico poema sulla memoria e il rimpianto. Anche le due ultime tracce, qui indicate come tradizionali, “Omie Wise” e “Nottamun Town”, sembrano non distaccarsi dalla generale atmosfera dell’album.
Canzoni di morte, amore, distacco, occasioni perse per sempre, amori strappati da un fato avverso, nostalgia e dolore. Qualcosa nello spirito gotico, nel senso di American Gothic, dei racconti di Ambrose Bierce, si insinua qui, specialmente nell’ultima “Nottamun Town”.
Un esordio veramente notevole.
02/01/2008