Arriva da Londra la più efficace risposta agli Yeah Yeah Yeahs. Almeno a detta dell’Nme. Il gruppo in questione si chiama Noisettes, una pimpante formazione garage-blues capitanata dalla conturbante Shingai Shoniwa, che realizza uno dei migliori esordi di quest’anno (a voler essere precisi, il disco circola in Inghilterra già da diversi mesi), apprezzabile se non altro per la rabbia e la (coerente) varietà dei temi proposti. Il punto di forza di questo trio è un originale amalgama di chitarre urticanti e sguaiate in stile New York Dolls, Stooges e MC5, condite da sculettamenti odorosi di glam e un piglio soul blues a metà strada tra Jimi Hendrix e James Brown. In molti hanno tirato in ballo i Bellrays (si potrebbe pensare anche ai Detroit Cobras) e forse il riferimento non è poi così inesatto o approssimativo.
Quello che fa la differenza è senza dubbio una scrittura mai banale o anonima, impreziosita dalla voce sensuale, isterica e graffiante della cantante, che plasma e modella le melodie rendendole ancora più acuminate e perforanti. "Don’t Give Up" si arrampica sui ruggiti di una chitarra hard inferocita, slabbrando una struttura già di per sé scomposta e ansimante. "Scratch Your Name" ha uno slancio ancora più verticale, che si incorona nello scatenato gospel garage del ritornello, scavato da acidissimi e poderosi riff di chitarre schiumose come onde lungo le fiancate di un incrociatore sabbattiano.
Sin dalla copertina questo disco è tutto un entrare nella bocca del lupo per lasciarsi dilaniare o per nutrirsi di esso, e pezzi ipercinetici come "Sister Rosetta (Capture The Spirit)" (dedicata a Rosetta Tharpe) o "Bridge To Canada" si lasciano aggredire dai conati di una fame (un appetito) animalesca e regressiva. Non mancano momenti in cui rifiatare e leccarsi le ferite ("The Count of Montecristo") al suono accogliente di un dondolante bozzetto acustico, ma gli orgasmi elettrici riprendono con lo sciame intricato di torpedini sguinzagliate dalle bellissime "IWE" e "Nothing To Dread", con chitarre che stridono e guaiscono come cagne in fregola. Altro che Artic Monkeys…
Se il paragone non fosse esagerato o sottilmente irriguardoso, verrebbe quasi voglia di parlare di Birthday Party (o Grinderman) più accessibili e, se possibile, "pop" (ascoltate "Mind The Gap", con i suoi spasimi velvettiani, che si divincolano tra le spire di un blues atonale e destrutturato, per poi specchiarsi in sprazzi di jazz sottile e controllato in stile Billie Holiday).
Della carica sessuale di questa musica intrinsecamente nera si è già detto, e "Cannot Even (Break Free)" trasforma la sagrestia di jazz soffuso della prima parte del pezzo in una Sodoma urlante, rovesciandosi addosso un nido di api dal pungiglione metallico. Un po’ più frammentaria e troppo lunga "Hierarchy", a causa soprattutto di una struttura melodica non esattamente solidissima (ma la prestazione vocale è da pelle d’oca), mentre la conclusiva "Speedhorn" ritorna a cavalcare il furibondo rodeo garage-blues delle prima parte del disco, graffiata dagli artigli affilatissimi di questa impressionante Janis Joplin nera.
Esordio piuttosto distante da mode e tendenze passeggere, questo "What’s The Time Mr. Wolf" potrebbe essere la prima tappa di un percorso importante. O almeno questa è la speranza, peraltro più che giustificata nel caso specifico.
30/07/2007