L’uomo nero arriva da San Francisco, a prenderti per il collo, capovolgerti e bistrattare il tuo sistema nervoso sino a farti chiedere perdono per ogni
laissez faire.
Niente può essere come prima. Eugene Robinson esiste per fomentare la tua rabbia, e gli Oxbow per perfezionare il tuo pugno nello stomaco del mondo.
Personaggi sordidi, complessi, difficili da comprendere nella scelta di abbracciare la causa di un
blues-noise livido e fiero di ogni ferita ricevuta e inferta, nel prendere a calci e testate la realtà, con basso arcigno e un utilizzo della voce drammaticamente selvatico. Un’attitudine che emerge prepotentemente in tutta la sua anarchia già in “Serenade in Red”, corsa forsennata a dar la caccia ai propri incubi, detrattori, inquisitori e puttane angeliche.
Tracce sparse raccontano di un omone schizoide,
fighter and fucker, un poeta metropolitano che sale sul palco vestito di tutto punto, ma è già pronto ad agitarsi e agitare, a spogliarsi, a grondare sudore dal corpo roccioso, sino al delirio o all’indignazione collettiva.
Difficile restare indifferenti, e impossibile non stupirsi di fronte alla ricerca di un’introspezione che fluidifichi il dolore, senza alterarne l’acritudine di fondo nell’apporvi un’orchestra d’archi.
“The Narcotic Story” mostra degli spiragli di luce inediti, un dramma gonfio di emozione e alterazione ("The Geometry of Business”), invocazioni alternate a imprecazioni (“Down A Stair Backward”),
pot pourri di lacrime indifese e ruvidi lamenti (“She Is A Find”, “Frankly Frank”), simulazioni di violente auto-difese risolte in ripensamenti a bassa voce (”A Winner Every Time”), deformità elettrificate a ricompattarsi nell’intermezzo d’arco fiabesco (“Frank’s Frolic”), aprendo con
charme di ignota femmina (“Intro”) e chiudendo nell’ombra della propria, inquieta malinconia all’alba di una notte insonne (“ It’s the Giving. Not the Thinking”).
Chiedere di più sarebbe pretenzioso, un oltraggio a un
modus politicamente scorretto che, rammentandoci in brevi flashback il cinismo e la lucida follia di una storia vecchia e nuova a nome
David Thomas, riesce, in anni di patina indecentemente modaiola, a sfondare la muraglia di un triste disincanto critico.
Quanto basta per credere ancora all’
heavy rotation.