Vale per i Subsonica quello che sospetto possa valere in generale per l'Occidente: intrappolato in una logica temporale sempre meno lineare, "futuro" e "passato" tendono a sovrapporsi a tratti, a coincidere secondo schemi sconnessi. Non solo "L'eclissi" segna un ritorno al passato fieramente elettronico della band, ma ne acuisce il carattere retrofuturista: sound algido, cyberpunk, ma intarsiato di citazioni ed echi del passato.
I beat squadrati e dirompenti riprendono il dominio, ma è la chitarra l'"eminenza grigia" dell'album. Discreta, essenziale, cesella consapevoli cliché che finiscono immediatamente rifratti, replicati come moduli del pattern ritmico. Ne ho scritto da poco in riferimento a Why?: l'essenza di tanta arte di oggi sta nel suo rapporto col passato. Questa è l'anima del post-: non tanto il porsi dopo una certa fase storica (il rock, il moderno), quanto fuori dalla storia stessa. Il passato è ora un museo dal contenuto universalmente conosciuto, da cui attingere a piacimento per organizzare le proprie esposizioni tematiche. Scopro l'acqua calda, lo so, ma non mi pare che in campo musicale la questione sia stata approfondita a dovere: riprendere lo stilema disco più stereotipato ("Nei nostri luoghi"), figure morriconiane ("La Glaciazione"), sciabolate funk-punk ("Quattrodieci") o baldanzose sincopi ska ("Piombo") non è furto, falso, plagio, ma piuttosto atto d'inconsapevole adesione al culto del simbolo, che ricombinando frammenti di già sentito evoca le mitologie associate e traccia nuovi percorsi nella geografia popular.
"L'eclissi" è un album dalle molte sfaccettature, e tuttavia Subsonica al punto da risultare quasi da fan. Mancano le canzoni a presa immediata, "ancore" che potevano agganciare il non-appassionato e convincerlo ad approfondire. Eppure, dopo l'iniziale perplessità ogni brano si rivela al posto suo, e l'album suona convincente, privo di cedimenti. Gli stessi pezzi che di primo acchito sembravano scialbi scoprono una faccia da techno-cavalcate irrefrenabili ("La glaciazione", "Il centro della fiamma"), riempipista dal ritornello a colpo sicuro ("Veleno", "Quattrodieci", "Piombo"), lenti da trip in levare ("Alta voracità", "Alibi").
Stupisce poi la cura certosina del suono, prodigo di glitcherie, minimalismi vari, pulsazioni secche, frenetiche e impeccabili sferzate elettroniche che lo rendono assieme rovente e perlaceo.
A rovinare il quadro provvedono ad ogni modo i testi: aulici, autocompiacenti, non hanno il distacco che potrebbe renderli mirabilmente cinici, né l'efficacia impressionista a cui forse puntava chi li ha scritti. Goffi esercizi di ermetismo, inducono il sospetto che dietro alla loro pretesa profondità non ci siano che sentimentalismi tanto-al-kilo ribolliti in salsa hi-tech.
10/02/2008