Dietro al moniker Worrytrain si nasconde Joshua Neil Geissler, giovane musicista di stanza a Eugene, Oregon, con alle spalle tre album passati per lo più sotto silenzio. Destino che probabilmente toccherà pure a questo "Fog Dance, My Moth Kingdom", uscito a fine 2007 per Own Records. Peccato, perché la qualità della musica è notevole e la proposta di certo coraggiosa. Occorre difatti precisare che ci troviamo in territori assai distanti dall’easy-listening, muovendosi il disco lungo tre grandi direttrici: classica contemporanea, elettronica (talvolta estrema), ambient oscura e nichilista; senza dimenticare i frequenti riferimenti a certo industrial, all’isolazionismo, nonché alcuni passaggi di chiaro stampo noise.
Ad aleggiare su ognuna delle quindici tracce – e a fungere quindi da comun denominatore – un umore cupissimo, figlio di una sensibilità decadente che qua e là emerge in tutta la sua franchezza, quasi a voler evocare cicatrici laceranti e stati d’animo tutt’altro che pacificati.
Questa grosso modo la sensazione che traspare da pezzi come l’iniziale, delicatissima "Prelude For Piano And Malaria", portata avanti da pochi accordi di piano, o dalla successiva "Celestial Police", in cui a una melodia minimale si sovrappongono via via archi, clarinetto e mandolino; prassi che si ripete più avanti in "The Trenches Choir" e in "Cambodia" (uno dei vertici del disco).
Altrove a dominare sono atmosfere "cinematografiche", vedi ad esempio "For Auschwitz", suonata con l’austerità di una composizione da camera, "The Moth Screamed Harvest", con un mandolino a disegnare figure minimali su uno sfondo di bagliori elettronici, "Ode To Faithful Kataklysm", austera e classicheggiante nell’alternarsi di piano e violino.
Non mancano i momenti più ostici, su tutti "Thundertrance Interlude", esercizio di elettronica radicale, o le non meno semplici "Saturniidae" e "Exorcism For Cello and Malaria", pezzi che nell’essere – a loro modo – estremi, sottolineano come l’intero disco segua un andamento schizoide, manifestato peraltro già dal disegno posto in copertina: da una parte, appunto, gli episodi più violenti e incompromissori, dall’altra la delicatezza e il raccoglimento di brani come "Hospitalized" (altra vetta) e la lunga "White Phosphorus Angels".
Due anime che di rado si trovano a convergere – forse solo in "Acthung, God", dove tenui arrangiamenti d’archi si sovrappongono ad un tappeto elettronico e poche note di piano si perdono in sottofondo – segno forse che questa dicotomia di fondo altro non è che naturale esigenza espressiva.
Difficile trovare riferimenti diretti o espliciti per questa musica; la press release cita Rachel’s, Silver Mt. Zion, Steve Reich, ma poco di questi artisti si ritrova tra le note del disco: l’attitudine e il modo di suonare non sono per niente "post", non c’è spazio per velleità avanguardistiche, né tanto meno i pezzi indulgono in passaggi ambientali fini a se stessi.
Ci si trova allora tra le mani un’opera personalissima, la cui sola pecca è l’assenza di un filo del discorso che tenga assieme i vari episodi; ma si tratta di una mancanza minima per un disco la cui bellezza risiede altrove, nel tentativo di trasporre in musica un’interiorità travagliata e scossa da ferite, di creare la colonna sonora di uno stato d’animo, di esorcizzare insomma i propri demoni.
(06/02/2008)