“People Don’t Know Who Rules” è il secondo lavoro su lunga distanza dei Sense Of Akasha, band borderline di Brunico composta di Klaus Leitner (voce, chitarra, programmino), Armin Untersteiner (voce, chitarra), Christian Mair (voce, basso), Ivo Forer (batteria, glockenspiel, voce, programmino) e la nuova Irene Hopfgartner (voce, violoncello, piano).
Il complesso ha già sperimentato una monumentale, meditata rilettura d’un noise-rock progressivo in “Euphoria” (autoprod., 2003), pregevole nella fattura ma penalizzato dalla mancata produzione, nelle reinterpretazioni acustiche di “U_plu__ed” (autoprod., 2004), pur arrangiate con originalità e buon gusto, e nel mini del 2006 edito da Elch “Sulphur, Salt and Mercury” (dove spiccano i 10 minuti di “Come To Realize That”). Ma “People Do Not Know Who Rules” moltiplica le possibilità espressive, che ora comprendono solidamente elettronica, campionamenti e voci narranti, arrangiamenti da camera, umori folk e distorsioni accentuate, voci a cappella, cori e motti lirici sussurrati. “Can’t Remember”, uno dei brani proverbiali della raccolta, attacca da uno strimpellio lisergico per poi scindersi dapprima in nenia folk contrita e quindi in salmo con organo in crescendo, quasi una versione religiosa dei Death Cab For Cutie. “Make Me Real”, ancor più disteso, è un mantra in sottovoce corale su jingle-jangle del banjo e techno sincopata.
Anche gli ambiti coinvolti sono vividi, contrastati fino a realizzare un equilibrio molto compatto culminante in “Wish”, un esercizio di 12 minuti psych-space che cumula sfumature aerodinamiche fino all’apogeo di una visione sublime con emissioni dissonanti. Da una cantilena confessionale lo-fi (sostenuta da un organo silente) si sviluppa un fraseggio paradisiaco, schiantato da un concerto di chitarre e violoncello, in corsa grandiosa. Il brano termina, morente nella distorsione, quindi riesplode ancor più eroico in una sorta di marcia riverberata fino a che non si disintegra in un maelstrom galattico in cui le fonti sonore si separano (laddove prima erano compatte) e procedono in orbite differenti.
La più accurata purezza della produzione sfocia finalmente in una grande cura per i dettagli, oltre a una certa finezza nella stesura degli arrangiamenti, che variano costantemente per restituire un senso quasi fisico e tattile dello spettro emotivo.
L’esperienza auditiva è prossima a una sorta di radiodramma sperimentale con spoken radiofonico a schema: dal preludio austero per note tenute e basi ritmiche drum'n'bass della title-track, si arriva ai Giardini Di Mirò agresti di “Mellow”, mentre lo spoken si moltiplica in noise di folle di gente vociante e anticipa “Made Of Dirt”, un giro ritmico con declamazione rap filtrata, che s’interrompe casualmente e indi riparte più demonico di prima. La conclusione muta in puro drone l’intero brano, e apre al motto corale di “Option Key”, con distorsioni a tempo di rumba. Severe schitarrate Radiohead-iane lo sommergono, mentre lo speaker biascica in mezzo agli sciacquii elettronici di “The Subject Himself”, un numero slowcore con variazioni in progressione, tocchi sinistri e trotto finale.
Le ingenuità castranti arrivano in “Spin”, una piece in grado di contrapporre uno stratificato ritmo caraibico per batteria, djambè e cello, a una melodia povera (con vocals dominate da Irene), più degna di Burt Bacharach che dei Belle & Sebastian. Così la nuova versione di “Come 2 Realize That” è segnata dai limiti dei dettagli lambiccati dei Pink Floyd di “Wish You Were Here”, pur forte di una mostruosa conclusione shoegaze.
Il messaggio che sta in profondità all’opera è dunque discretamente arduo da decodificare, anche se la fruibilità è addirittura seducente. E’ una perla rara degli album italiani, in grado di far scoordinare, rallentare o smistare la percezione estetica sulla musica rock, o quantomeno di offrirne una scelta di presupposti e di ottiche differenti, ma sempre calzanti: pop sofisticato, psichedelia razionale, slowcore creativo, e via dicendo. Lo sguardo globale rimane il più interessante, per l’ampio respiro e la torreggiante concezione, commovente è il fine uso delle molte idee mansuete (non povere), encomiabile il legante tonale. Stile pure nella confezione. Primo video della band: “Make Me Real”.
01/11/2008