La pensata di stemperare l’indie-pop nel post-rock, gli Shins nei Built To Spill ha pagato eccome, in tutti i sensi. Specialmente dopo la cura major di “Plans” e la rotation dei corrispettivi brani in programmi di prima e seconda serata quali “O.C.”, “C.S.I.: Miami” e “Six Feet Under”, che ha laureato Ben Gibbard e soci poeti per eccellenza della generazione emo.
La prognosi in questi casi, si sa, è strettamente riservata: molti nemici e molto onere. E, in parte, con questo nuovo album, la band di Seattle sembra avviata a scontare la quaresima penitenziale che s’era prefissa: un singolo estratto di ben otto minuti, il sole della celeberrima “California” che fatica a fendere i pochi spiragli offerti da una generale, soffusa, torpidezza melodica.
Dopo i fasti della sbornia, insomma, sopravvivono soprattutto i mugugni, le melanconie, i malumori; lo smarrimento e la precarietà hanno il sopravvento sul trionfalismo pop che, secondo alcuni, magari era lecito attendersi. In parte, però, perché per il resto il gruppo rimane fedele a certi suoi propizi cliché: il cromatismo a tinte pastello, la finezza metrica e psicologica di testi degni d’una soap opera intellettuale, una certa noncurante leggerezza che, in ogni modo, attecchisce anche fra i solchi di canzoni attinte a una varietà di generi forse più ampia del solito.
Così “Bixby Canyon Bridge”, oltre a rendere un omaggio funebre ai pellegrinaggi di Jack Kerouac, alterna una prima parte flautata e arpeggiante alla temperie distorsiva e muscolare della seconda (con gli accordi di chitarra slabbrati e un basso pregno e sordo). “I Will Possess Your Heart” rarefà una melodia diafana e atonale nel sopore di una jam di otto minuti, tendendo le corde liquescenti del piano e della chitarra, e ritagliando concavità oniriche in cui il basso di Nicholas Harmer la fa da padrone.
“No Sunlight” è una delle poche, ironiche concessioni al power-pop, “Cath”, al loro indie-rock prima maniera. “Talking Bird”, uno dei pezzi migliori, è un lento crooning bacharachiano levato sullo scabro paravento della chitarra elettrica, “You Can’t Do Better Than Me”, una Salvation Army beatlesiana, “Grapevine Fires”, un pop sghembo e sincopato, finemente ornato di soul, “Your New Twin Sized Bed”, un molleggio country psichedelico.
“Long Division” dissimula l’emotività in una brunitura synth, “Pity And Fear”, scolpisce una psichedelia indiana a ritmo di raga/wave che s’espanderebbe verso un orizzonte asintotico se non venisse troncata bruscamente, sul più bello. “The Ice Is Getting Thinner”, infine, è una ballata semplice e graziosa, col suo picking notturno e lunare, qua e là punteggiata di slide.
Chi, per opposte ragioni, li aspettava al varco, rimarrà probabilmente deluso, chi su di loro non s’era mai fatto troppe illusioni, no.
24/05/2008